10 aprile 2016 10:56

È veramente complicato parlare del nuovo libro di Edoardo Albinati, La scuola cattolica. E non è solo per la sua lunghezza, sono 1.294 pagine di un’edizione Rizzoli con una gabbia molto larga, e per leggerle occorre almeno una settimana in cui si rinuncia a quasi ogni altra attività. Ma la mole gigantesca non è l’ambizione maggiore di Lsc, che non è, come qualcuno ha fatto notare, solo un libro lunghissimo, ma un testo che già di suo dichiara di essere molte cose insieme.

È un romanzo fagocitante, bulimico, che cerca, impossibilmente, di fare i conti una volta per tutte con gli atti e le ideologie di quella generazione diventata adulta negli anni settanta tra crisi dei valori borghesi ed esplosione della violenza non solo politica; è un romanzo dell’io, metà Bildungsroman con tutte le scene classiche del genere (conflitto con i genitori, scoperta del sesso, amore per i mentori, amicizie e tradimenti, confusioni ideali, nostalgia e sollievo per la possibilità di lasciarsi quel tempo alle spalle) e metà memoir scritto a mo’ di diario, con appunti che ripercorrono l’aneddotica di una giovinezza esemplare anche per il solo fatto di essere lontana.

Ed è anche un trattato sull’educazione del maschio in Italia, il tentativo di rintracciare la genesi di quel carattere idealtipico di sopraffazione, arroganza, cameratismo criptofascista attraverso cui interpretare la storia complicata del nostro paese; ed è, come ha già fatto notare su IL Francesco Pacifico, un libro che somiglia per andamento e voce ai Saggi di Michel de Montaigne (in alcuni casi a Blaise Pascal), una serie di riflessioni che procedono per divagazione dalle letture e dalle esperienze biografiche di Albinati: invenzione e fedeltà ai ricordi si fondono senza nemmeno specificare precisamente le dosi dell’amalgama.

Cinquant’anni di storia personale e comune

La fonte nera da cui scaturisce l’intera narrazione è duplice. La prima è la coincidenza per cui Albinati è stato compagno di scuola dei tre protagonisti del delitto del Circeo – Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira (Angelo, Subdued e il Legionario, nel libro) – che violentarono e massacrarono Rosaria Lopez e Donatella Colasanti; quest’ultima si salvò miracolosamente, fingendosi morta. Era il 1975: l’autore aveva vent’anni, gli assassini avevano vent’anni.

La seconda è l’altro delitto di cui si è reso colpevole Angelo Izzo, nel 2004: l’omicidio feroce di una donna e di sua figlia di 13 anni a Ferrazzano, un paesino vicino Campobasso nel quale Izzo scontava la pena in una cooperativa, affidato di giorno ai servizi sociali. Nel 2004 Albinati, che non aveva mai scritto del delitto del Circeo nonostante la conoscenza diretta, sente invece di essere chiamato a farlo: una sorta di vocazione a raccontare questa storia, a doverla dire tutta.

L’eccezionalità di questo libro deriva da questo: dai dieci anni di lavoro necessari alla stesura certo, ma soprattutto dal non voler lasciare nulla di nascosto, nel vuotare il sacco come in una confessione, alla Agostino, alla Rousseau.

Se è vero quindi che La scuola cattolica è un romanzo programmaticamente sconfinato, è vero anche che ha dei limiti geografici, che sono le stesse mura scolastiche dell’istituto solo maschile San Leone Magno e le strade del quartiere Trieste; SLM e QT come sono abbreviati nel libro. Ciò che può sembrare un campione talmente minuscolo da non poter essere paradigmatico di nulla, diventa invece, più che lo specchio, la lente deformata attraverso cui raccontare cinquant’anni di storia personale e comune.

Soprattutto la prima parte del romanzo è un ritratto plurale di un gruppo di maschi, i compagni di classe e di scuola, che costituiscono un unico personaggio, un noi, da cui ogni tanto si distacca un nome.

Eravamo sognatori abbastanza privi di fantasia. La principale stimolazione ci veniva dalla televisione e dalle barzellette sporche, di cui devo ammettere che raramente coglievo il senso, voglio dire, il senso integrale.
Non sarà per caso che esiste l’espressione “il primo della classe” mentre non si è mai sentito dire il secondo o il terzo, o il quinto della classe, come eravamo Zipoli e Zarattini, Lorco e io. Nascere maschi è una malattia incurabile. Non era solo Arbus a mostrarsi goffo, scoordinato. Tutti noi facevamo movimenti sgraziati per compiere qualsiasi gesto, fosse anche mettersi la cartella sulle spalle (allora non esistevano gli zaini se non quelli da campeggio). Se uno psicologo avesse osservato i balzi scomposti che facevamo, il nostro modo di grattarci e sbracciarci, avrebbe dedotto che eravamo malati di mente.

Se non è rigida come nel Giardino delle vergini suicide di Jeffrey Eugenides – dove il narratore non ha un’identità, scompare direttamente nel gruppo dei maschi adolescenti – la prima persona plurale coniugata all’imperfetto (eravamo, facevamo) è comunque il cardine della narrazione di Albinati. Questa gli serve per diagnosticare senza darsi scampo questa malattia incurabile dell’essere nati maschi.

La condizione maschile è setacciata attraverso un’acribia sociologica, filosofica, storica, letteraria, e soprattutto attraverso la strumentazione che gli viene dal femminismo. Albinati stesso ha dichiarato nella presentazione di Lsc all’Auditorium un mese fa che per scrivere questo libro si è letto centinaia di testi femministi, e anche a un certo punto del libro ammette questo debito:

Il più originale e durevole discorso politico del novecento è il femminismo. (…) Il principale discorso politico del novecento non è dunque il comunismo, originato nel cuore del diciannovesimo secolo, e non lo sono nemmeno le alchimie reazionarie che lo hanno combattuto più o meno mescolandovisi. Tantomeno il capitalismo, che ha origini ancora più remote. Il più innovativo movimento politico degli ultimi cento anni, nonché quello più drammaticamente attuale, è quello della liberazione delle donne.

La potenza maggiore di questa scelta sta proprio nell’originalità di non prendere a distanza d’anni un caso di cronaca criminale ed esplorarlo costruendoci un’epica nera; come evidenzia bene Andrea Cortellessa sulla Stampa: “Quasi provocatoriamente, Albinati capovolge la vulgata stucchevole del noir-che-fa-finalmente-chiarezza-sui-misteri-d’Italia”. Il racconto dei fattacci – da un certo punto di vista l’inizio del romanzo – è rimandato fino a pagina 473.

Verso le undici di sera del 30 settembre 1975, dalla finestra di casa sua, un residente di viale Pola 5 (duecento metri da dove abito io), nota due ragazzi fare manovra per parcheggiare una 127 nel vialetto condominiale, scendere dalla macchina, discutere animatamente e quindi allontanarsi.

Del resto non c’è nessuna suspense, sappiamo che nel bagagliaio di quella macchina ci sono le vittime del massacro, una morta e una viva. E allora perché aspettare così tanto per arrivarci?

Perché per Albinati era necessaria – a ragione – una lunga premessa, che ci facesse ritornare su quei corpi distrutti con uno sguardo diverso dalla pietà fatalista o dalla morbosità malcelata con cui li abbiamo considerati finora.

Chi ha letto gli altri libri di Albinati conosce il suo procedere per associazioni: dai suoi testi più belli, Maggio selvaggio e Svenimenti (ristampatelo!), ai suoi libri più occasionali di saggistica, Orti di guerra oppure Oro colato, e fino ai suoi poemi, il meraviglioso e introvabile La comunione dei beni (ripubblicate anche questo!) o Sintassi italiana, la frammentazione, l’episodicità, l’aneddotica, il non concedersi mai a grande trame o a grandi interpretazioni non sono il segno di una resa alla possibilità di comprendere e narrare il mondo, ma la decisione occamista di non moltiplicare gli enti se non ce n’è bisogno, di stare alle cose. Il criterio che guida la scrittura di Albinati è l’adesione fenomenologica, la sola trascendenza possibile è quella del mettere sulla carta ciò che registrano i sensi.

Anche quando ci addentriamo in un abisso, abbiamo il dovere, da scrittori, di catalogare.

Andiamo all’esempio principale. Una buona parte delle pagine di Lsc parla di stupro, con una lucidità quasi da scienziato naturalista e senza edulcorare nemmeno un tono.

Lo stupro è contiguo o intrecciato ad altri atti di violenza, la guerra, la rapina, la vendetta, di cui può rappresentare il culmine, lo scopo iniziale o quello di ripiego, l’accompagnamento, la traslazione, la variante, l’in- venzione improvvisa. Se un rapinatore resta a mani vuote, può sempre violentare la padrona di casa. Se la violenta, potrà sempre ucciderla. Se aveva pensato di stuprarla, può rinunciarvi e invece picchiarla fino a farle perdere i sensi. Oppure fare tutte queste cose insieme. Stupro e saccheggio vanno sempre insieme. Quando c’è poco da saccheggiare, si può sempre violentare: il principio dell’appropriazione si applica più o meno nello stesso modo alle cose e agli esseri viventi.

Seppure non manifesti, attraverso note o bibliografie, i suoi debiti teorici (Joanna Bourke, Andrea Dworkin, bell hooks, per citare i primi nomi che vengono in mente), vanno riconosciuti ad Albinati il coraggio e la capacità di scrivere un romanzo-monstre sulla storia recente d’Italia a partire da un nodo che nessun autore maschio aveva mai messo così al centro della sua narrazione.

Da quest’interrogativo – perché noi maschi stupriamo? – Lsc si irradia, toccando altri temi-mondo, dalla violenza alla crisi della borghesia, e scrivendo pagine bellissime di teodicea. Sì, l’interrogativo chiave del libro è la questione del male, ma la disamina con cui Albinati ci cattura non è quella di un dostoevskjismo di risulta o quella di un pasolinismo in vena di facili generalizzazioni sociologiche. Quando Albinati arriva a chiederci qual è il nostro grado di coinvolgimento, le sue domande non sono provocatorie né retoriche.

Ora mi chiedo, con un certo anticipo sul racconto, si può applicare il perdono ai protagonisti del delitto che, pagina dopo pagina, mi sto avvicinando a trattare (troppo lento e divagante, direte, questo mio cammino? L’ho presa un bel po’ alla larga? Avete ragione: ma era la natura stessa del delitto a richiedere che se ne raccontassero i preliminari; o piuttosto, i cerchi concentrici che lo avvolgono, gli anelli che da un lato vi conducono, dall’altro se ne allontanano, come in certe insegne luminose. La scuola, i preti, i maschi, il quartiere, le famiglie, la politica. Potrebbe darsi che al centro del bersaglio non vi sia alla fine quel delitto, ma qualcos’altro… che se avete la pazienza di seguirmi scopriremo insieme), potranno essere perdonati a prescindere dal fatto che abbiano o meno scontato la pena comminata loro dallo Stato? E se non il perdono cristiano, quantomeno l’indulgenza o il semplice oblio?

La struttura spiraliforme, digressiva, capiamo bene che non è dunque un palinsesto pretestuoso, ma l’unica via possibile per provare a rendere sulla pagina un difficile percorso di autoanalisi generazionale e politica, un cammino di autocoscienza che in Italia i maschi evidentemente non hanno mai avviato. In un altro degli ennesimi preliminari o chiose che costellano le mille e passa pagine di La scuola cattolica, Albinati scrive:

Premessa: prima di essere caucasico, italiano, battezzato cattolico romano, borghese, di sinistra e laziale, io sono un maschio. È questa la mia identità più ovvia, la discriminante, il mio carattere spiccato, di cui rendere conto non appena affacciato dal ventre di mia madre. Ho dunque più affinità con un musulmano nero povero, nato in Sudan, che con un’avvocatessa dei Parioli, o con la badante ucraina che prepara il brodo a sua madre. Del subsahariano, dal quale pure mi separano abissi, porto, fraternamente perché involontariamente, le medesime stimmate fisiologiche, le colpe e forse un analogo insensato orgoglio, nutro desideri simili, coltivo frustrazioni gemelle. Il mio corpo funziona come il suo, e al novanta per cento anche la mia mente, quella enorme parte sommersa della mente che l’ambiente in cui siamo cresciuti lui ed io non riesce a sfiorare.

E se subito dopo confessa la sua “venerazione per Sigmund Freud”, lo fa per evidenziare anche tutti i pezzi mancanti di una storia: che i maschi non abbiano fatto propria una prospettiva di genere ha voluto dire non elaborare importanti eredità culturali. Gli omissis della storia della repubblica sono questi, più che i segreti di stato. L’insicurezza, il senso di solitudine, l’inadeguatezza, la sudditanza psicologica, l’ambiguità morale, che Albinati riconosce negli amici, nei compagni con i quali è cresciuto, sono stati elementi praticamente rimossi nel racconto di quegli anni turbolenti, e lo sono ancora.

Se oggi dovessimo avere a cuore non dico una memoria condivisa (che espressione brutta) ma un incontro tra memorie, l’obiettivo principale non sarebbe solo far dialogare le visioni conflittuali determinate da posizioni politiche opposte, o le lacerazioni tra i responsabili di atti di violenza e le vittime, ma obbligarsi ad accostare la prospettiva maschile e quella femminile, tramite un femminismo della differenza a cui possano contribuire finalmente anche la parola e il pensiero degli uomini.

Questo nuovo discorso Albinati lo intraprende, e per questo motivo prima di altri Lsc è un romanzo da leggere, spesso entusiasmandosi per la bellezza di certe pagine; e da discutere, non fosse altro per reagire di fronte a passaggi come questo:

Noi viviamo dunque in una società dello stupro. Ostilità rapacità e potenza trovano una manifestazione sessuale. Il sesso è il linguaggio, non la cosa. È il modo di volere, non l’oggetto voluto. Si declina attraverso il sesso qualsiasi pulsione: vendicativa, rivendicativa, esibizionistica, identitaria. I ragazzini stuprano le loro compagne di classe e le filmano col cellulare. Libertà intesa come facoltà di nuocere. Libertà = delitto. Una piena realizzazione di se stessi può avvenire solo se si è pronti a prevaricare gli altri, e capaci di farlo. L’io coincide in pieno con la potenza.

Ma proprio perché ribadiamo la rilevanza di questo libro, dobbiamo riconoscerne anche i limiti. Il primo è strutturale: se fino a pagina 550 l’andamento ondivago viene padroneggiato con uno stile magistrale, che rende la lettura ipnotica, nella seconda parte il procedere per accumulo finisce per risultare faticoso, e quello che si esige dal lettore è uno sforzo che sembra non si sia voluto fare in fase di editing: le interpolazioni come il diario del professore d’italiano Cosmo, seppure piene di spunti e intuizioni, sembrano rimanere a un livello di piano di lavoro, non si amalgamano con quell’intenso processo di conoscenza che è incarnato nel romanzo.

Allo stesso modo, tutta la vicenda di Arbus – l’amico prodigioso e inarrivabile – risultano poco credibili, sanno di fiction artefatta, in un libro che conquista l’incredulità del lettore proprio quando mette a nudo ciò che è più banale, conosciuto nel racconto della realtà, o nella verbigerazione del resoconto personale, come i pensieri di Albinati stesso.

Il secondo limite riguarda l’autocritica che Albinati muove al suo mondo, alla sua educazione, alla sua identità. Non usa un briciolo d’indulgenza per raccontare il suo sguardo di maschio: famelico, perennemente predatorio, insicuro fino all’anima e desideroso di affermazione, riconoscimento, potere (e in questo senso La scuola cattolica va messo vicino a quelli che sono due tra i più importanti romanzi italiani degli ultimi anni, Scuola di nudo di Walter Siti e Rondini sul filo di Michele Mari). Un tipico maschio italiano, riuscito esperimento di una classe sociale che non ha saputo trovare gli anticorpi per la sua intrinseca violenza.

Ma al contempo non riesce a essere altrettanto spietato con la sua formazione borghese, pur esaminandone le caratteristiche per centinaia di pagine o pur avendo la capacità di rintracciare nell’idolo dell’ordine domestico un altro elemento fondamentale che ha nutrito la cultura tanto della sua normale famiglia onesta quanto l’ideologia deviata degli assassini del Circeo – il dettaglio sulla preoccupazione per la casa in disordine nelle dichiarazioni sul massacro è un colpo al cuore.

Eppure Albinati liquida quasi del tutto il marxismo, non si fida molto della lettura degli eventi come conflitto di classe, confonde una borghesia alta, come quella da lui rappresentata, con il ceto medio, parla della cameriera che aveva in casa da ragazzo solo per prendere in giro il suo accento, e soprattutto se ne esce con giudizi tranchant da perbenista quando parla di Roma, quasi a ottenere un consenso facile dai difensori del decoro urbano.

Eppure anche qui, nel QT, il diffuso degrado romano. Cassonetti traboccanti mai svuotati. Macchine parcheggiate tranquillamente in seconda e terza fila. Passeggiatori di cani che, con le cosce tremanti, defecano davanti ai portoni, collaudatori di mini-moto costruite in garage o altri apparecchi radiocomandati (attenzione: non sono ragazzi, ma cinquantenni), e poi writers o taggers cioè quei pipparoli che imbrattano muri coi loro monotoni scarabocchi e che qualche reduce del Dams o ex deputato di Rifondazione comunista (ma perché? perché? perché vi ho votato?) si ostina a difendere come manifestazione artistica o sintomo del ‘disagio giovanile’.

Se tutti questi sono difetti veniali, c’è una mancanza che alla fine di Lsc risulta invece più pesante. Ed è quella di non aver saputo cogliere fino in fondo la voce dell’altro, di chi era coinvolto in questa storia, un’umanità davvero vertiginosa che forse la razionalità che Albinati si impone per tutto il romanzo non riesce a catturare. Fa impressione mettere a confronto righe che scrive in prima persona – a pagina 1.149 – come se fosse il diario di Angelo Izzo dopo il delitto di Ferrazzano, quello del 2004, con la testimonianza video del processo che andò in onda a Un giorno in pretura. L’assassino di Albinati è scisso ma clinico, un personaggio che ha rinunciato all’empatia come se fosse in un romanzo di Albert Camus o Bret Easton Ellis.

Poi mi sono girato. È morta soffocata. Avevo avvolto lo scotch anche intorno al sacchetto. Quanta aria conterrà un sacchetto? La ragazza non ha reagito, legata com’era mani e piedi e imbavagliata, con il sacchetto in testa. Non si è agitata come sua madre. Mi sono girato perché mi dava fastidio. E ho bevuto una Coca-Cola.

L’assassino che invece dal vero risponde alle domande del giudice è un istrione, ridacchia, ha il tono di un bonario trafficone romano anche quando spiega come s’impacchetta un cadavere, non ha nulla di Mersault o di Patrick Bateman. In questo senso è più spaventoso.

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E ancora: c’è una voce soprattutto di cui si sente la mancanza in La scuola cattolica ed è quella delle vittime, in primo luogo quella di Donatella Colasanti, la superstite del Circeo, morta nel 2005 per un tumore. Albinati più volte riconosce come di fronte ai delitti efferati si sia più interessati alla storia dei colpevoli che a quella delle vittime. E nel caso particolare addirittura aggiunge che allora nel racconto dei mezzi d’informazione si respirava una specie di snobistico classismo, che etichettava le due ragazze semplicemente come di un ceto più basso, popolane contro i pariolini, e non raccontava quasi nient’altro di loro.

Avrei voluto sapere finalmente qualcosa di più di loro. Avrei voluto poterne risentire la voce.

Per questo alla fine della lettura sono andato a cercare le interviste che le fecero nel tempo. Ne ho trovata una impressionante, che Enzo Biagi realizzò con Donatella Colasanti nel 1983.

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A riguardarla oggi, e dopo la lettura così chirurgica da parte di Albinati del potere italiano, le domande che le pone Biagi risultano ancora più aggressive e mistificanti. Ma lei risponde con una calma e una dignità davvero sorprendenti, che la emancipano dal ruolo della vittima, e dal personaggio che i giornalisti le hanno cucito addosso, e la fanno risultare una persona che ha a cuore la giustizia al di là del suo caso personale.

Ma forse questa è una storia che prima o poi qualcun altro racconterà.

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