13 novembre 2016 10:40

È una bestemmia affermare che Zero K, l’ultimo libro di Don DeLillo è piuttosto noioso, spesso non credibile, una scommessa pretenziosa decisamente persa?

Una coppia di miliardari americani, Ross Lockhart e la sua seconda moglie Artis, malata terminale – di nuovo ricchissimi americani (ne avevamo già conosciuti in Cosmopolis) –, si trova in una specie di città sotterranea in mezzo al Caucaso dove una serie di magnati agiatissimi – fanatici? visionari? – hanno creato Convergence, un progetto dove ibernare a zero gradi Kelvin le persone per poterle risvegliare in un futuro dove la maggior parte delle malattie sarà debellata, e la tecnica avrà trovato finalmente il modo per renderci immortali.

Il protagonista, il figlio di Ross, vola fino a Convergence e si trova a interrogarsi per trecento pagine insieme al lettore sul senso della scelta di suo padre e di Artis, che hanno deciso di criogenizzarsi, ossia di rinunciare, di rimandare almeno per ora l’esperienza della morte come la conosciamo noi.

Hanno deciso, non è l’espressione adatta – si stanno interrogando se farlo o meno. E Zero K è il resoconto dettagliato di questa inesausta interrogazione. In tutto il romanzo ci sono circa 400 punti interrogativi. Di fronte alla paradossalità, all’estremità della situazione, i personaggi non possono far altro che abbandonarsi a elucubrazioni molto profonde su questa scelta drammatica e sui grandi temi dell’uomo.

Esempi dalla prima parte.

A pagina 42 Jeffrey parla con Artis.

“Ci pensi al futuro? A come sarà tornare? Il corpo sarà lo stesso, certo, oppure potenziato; ma la mente? La coscienza rimarrà inalterata? Sarai la stessa persona? Tu muori in quanto quella determinata persona con quel dato nome e con la storia, i ricordi e i misteri raccolti in quella persona e quel nome. Ma ti risveglierai con tutte queste cose intatte? Sarà semplicemente come il mattino dopo una bella dormita?

Io e Ross scherziamo spesso su questa cosa: chi sarò al mio risveglio? La mia anima avrà lasciato il corpo e sarà trasmigrata in un altro corpo chissà dove? Com’è che si chiama, questa cosa? O mi sveglierò convinta di essere un pipistrello della frutta nelle Filippine? Affamato di insetti.

E la vera Artis. Dove sarà?

A pagina 56 un’addetta di Convergence si rivolge ai pazienti che vogliono sottoporsi al trattamento.

Le speranze e i sogni del futuro spesso non riescono a spiegare la complessità, la realtà della vita su questo pianeta. Questo lo capiamo. Gli affamati, i senzatetto, gli assediati, le fazioni in guerra, le religioni, le sette, le nazioni. Le economie annichilite. Gli impeti furibondi del clima. Possiamo essere invulnerabili al terrorismo? Possiamo respingere le minacce degli attacchi informatici? Saremo capaci di rimanere veramente autosufficienti qui?

A pagina 59.

L’io. Cos’è l’io? Tutto quello che siamo, senza gli altri, senza amici, estranei, amanti, bambini, strade da percorrere, cose da mangiare, specchi dove guardarsi. Ma si è davvero qualcuno senza gli altri?

[…] Era forse il personaggio, la mezza finzione che presto sarebbe stata trasformata, o ridotta, o intensificata, diventando puro io, sospesa nel ghiaccio? […] Cosa succede all’idea del continuum – passato, presente, futuro – in una cella criogenica? Si è in grado di concepire i giorni, gli anni, i minuti? O questa facoltà si affievolisce fino a venir meno? Quanto si è umani senza la nozione del tempo? Più umani che mai? O si ritorna a uno stato fetale, lo stato di un essere non nato?

A pagina 99.

Ho aggiunto in tono pacato: ‘Sarai in grado di prendere decisioni esecutive dalla cella frigorifera? Analizzare attentamente i nessi fra la crescita economica e la redditività finanziaria? Di consolidare le franchigie del cliente? La Cina continuerà a surclassare l’India?

Fino al parossismo di pagina 61, tre pagine di discorso diretto tutto fatto di questioni ultimative.

Questo è il primo nanosecondo del primo anno cosmico. Stiamo per diventare cittadini dell’universo.

Naturalmente ci sono delle domande.

Una volta che avremo imparato a dominare il prolungamento della vita e ci saremo avvicinati alla possibilità di diventare eternamente rinnovabili, cosa sarà delle nostre energie, delle nostre aspirazioni?

Delle istituzioni sociali che abbiamo costruito.

Stiamo progettando una cultura futura basata sul letargo e l’autocompiacimento?

La morte non è forse una fortuna? Non definisce il valore della nostra esistenza, di minuto in minuto, di anno in anno?

Tante altre domande.

“Non ci basta vivere un po’ più a lungo grazie ai progressi della tecnologia? Dobbiamo per forza andare avanti all’infinito?

Perché sovvertire una scienza innovativa con abborracciati eccessi umani?

L’immortalità letterale finisce per comprimere le nostre forme d’arte più durature e le meraviglie culturali riducendole a nulla?

Di cosa scriveranno i poeti?

Che sarà della storia? Che sarà dei soldi? Che sarà di Dio?

Tante altre domande.

[…]

Si sarebbe davvero blasfemi affermando che in molti di questi brani la prosa di DeLillo somiglia all’eloquio di Quelo, ma si può essere invece onesti intellettualmente se si scrive che DeLillo utilizza delle sue capacità quasi solo la maniera, si “delillizza”: spinge in là il paradosso, cerca di mettere in scena un futuro prossimo a partire dalla rarefazione del caos contemporaneo, rallenta fino a quasi a rendere una danza buto il ritmo narrativo.

Il futuro prossimo venturo o il presente intensificato che in diversi romanzi era stato capace di ritrarre con realismo qui sembra una teoria fantascientifica evanescente, sfuggente al nostro sguardo. La prima parte di Zero K – “Nel tempo di čeljabinsk ” – potrebbe essere letta come il negativo della prima parte di Underworld, “Il trionfo della morte”: i corridoi luminosi e deserti di Convergence sono l’opposto dell’euforia densa del mondo sovrappopolato di oggetti e persone.

In una dettagliata recensione, una delle rarissime voci critiche su questo libro, Enrico Macioci trova che questi aspetti – la vaghezza descrittiva, l’incapacità di costruire dei dialoghi credibili (e l’utilizzo di un’incomunicabilità à la Antonioni come una scappatoia stilistica) – ne costituiscano un limite ancora più profondo: una specie di disinteresse dei personaggi e poi dell’autore stesso a indagare la materia incandescente che si è messa in scena. Conflitti familiari di una vita, la scelta di continuare a vivere o di lasciarsi andare sono come solo enunciate, in un quasi evitamento di scene madri, di soluzioni narrative.

Come installazioni
Se i romanzi novecenteschi di DeLillo – da Americana a Great Jones Street a Rumore bianco fino a Underworld – segnano una possibile uscita dalle impasse del postmoderno, attraverso la rielaborazione della storia, della mitologia e delle ideologie in una dimensione rinnovatamente tragica, i libri dopo il 2000 – Body art, Cosmopolis, L’uomo che cade, Punto Omega e ora Zero K – somigliano a delle installazioni.

Nella prima monografia italiana dedicata a DeLillo – l’ha scritta Marco Trainini e l’ha pubblicata da pochissimo Castelvecchi – è ricordata la menzione che DeLillo fa di un saggio di Ernest Becker, Il rifiuto della morte, per la scrittura di Rumore bianco: è la conferma dell’intenzione esistenzialista che attraversa tutti i romanzi fino al nuovo millennio – i dialoghi su se sia meglio morire prima o dopo che fanno Jack Gladney e sua moglie Babette a letto in Rumore bianco sono un meraviglioso e ironico esercizio di stile su Heidegger, Sartre o Kierkegaard.

Poi cosa accade: la questione del tempo e della storia è come se evaporassero. Il tempo dell’azione si è compattato, i luoghi diventano anonimi, pretestuosi (molto distanti dalla Grecia di Mao II per fare solo un paragone: qui in Zero K la Russia degli Urali e l’Uzbekistan dove è situata Convergence sono ridotti a stereotipi vagamente esotici – c’è da chiedersi cosa ne penserebbe un lettore di quelle parti, se non si sentisse preso in giro come i lituani delle Correzioni di Jonathan Franzen).

Se per il primo decennio della sua attività letteraria DeLillo non ha rilasciato nemmeno un’intervista – la sua prima lunga conversazione sarà con Thomas LeClair nel 1982, undici anni dopo il suo esordio, Americana – negli ultimi anni invece non lesina occasioni di analizzare il suo lavoro a partire dalle sue intenzioni. Nelle ultime settimane ne sono uscite diverse solo sui giornali italiani (una rassegna del dibattito italiano su Zero K l’ha raccolta l’editor di narrativa straniera di Einaudi, Francesco Guglieri, sul blog della casa editrice, Biancamano 2, e ci sono un sacco di interventi davvero interessanti): in tre di queste – quella di Giuseppe Genna, quella di Francesco Pacifico e quella di Francesca Borrelli – Don DeLillo parla della sua poetica utilizzando molti riferimenti all’arte visiva.

Ecco alcuni brani delle sue risposte.

“L’approccio è simile a quello di un pittore come Richter, che afferma di sentire quando un monocromo o una tela astratta sono finiti poiché non c’è più nulla da aggiungere o togliere”.

“Non faccio schemi. Prendo appunti su scene, dialoghi e nomi di personaggi. Non so niente dell’intreccio. Vado frase per frase. Spesso comincio un romanzo perché ho una immagine visuale che mi spinge alla macchina da scrivere, e comincio a lavorare”.

“Il ruolo delle immagini in questo romanzo è di grandissima importanza, anche se – ancora una volta – esse sono il frutto di una intuizione, non di un piano prestabilito. […] Del resto, tutto è molto strano in questi edifici che ospitano Convergence: lunghi corridoi dove si aprono porte dietro le quali non c’è nulla, pareti dipinte con scene che rappresentano gli ambienti stessi… A un certo punto del romanzo viene detto che questi corridoi sono un’opera di land art. Finché Jeff non assiste al video finale, quello dove passano immagini di guerra, distruzione, morte, noi sapevamo solo che Stak era andato via di casa. Ma nel momento in cui Jeff lo vede cadere capiamo che, probabilmente, si era unito a una milizia informale attiva in un combattimento: sarà solo grazie a una coincidenza che Jeff lo vede morire? O c’è dietro un piano che sovraintende a tutto quanto? Jeff non lo sa, e io nemmeno. Semplicemente, ho seguito l’idea di immagini proiettate su uno schermo, qualcosa di preternaturale, che si muove al di là di un livello intelligibile”.

Un lavoro autoreferenziale
Le immagini non sono rappresentative, ma rimandano solo a sé. Il ruolo che ha l’arte contemporanea e il tentativo di capirne il suo potenziale che esorbita quello letterario sono una costante in tutto il lavoro recente di DeLillo: è fondamentale a partire dal lavoro di land art che Klara Sax fa con i rifiuti in Underworld o dal racconto sulle fotografie della banda Baader-Meinhof (che uscì nel 2002 sul New Yorker e che solo recentemente è stato raccolto nell’Angelo Esmeralda) o ovviamente in Body art.

Ma anche il lavoro sul linguaggio sembra rimandare a se stesso. E se Federica Aceto, la grandiosa traduttrice di Zero K, mostra un labor limae incredibile da parte dell’autore e che ci fa leggere il romanzo come una prosa d’arte, l’aspetto di esplicita meditazione sul linguaggio – uno dei temi centrali dell’opera di DeLillo – anche questo diventa quasi caricaturale talmente è insistito ed esplicito.

“Quell’impresa mi dava la soddisfazione di qualcosa di guadagnato con fatica, nonostante mi fossi prefissato di non controllare la definizione del dizionario. Il rullo sembrava uno strumento del diciottesimo secolo, un oggetto usato per strigliare i cavalli. Era già da un po’ che facevo questa cosa: cercare di definire la parola che designava oggetti o anche concetti. Definisci lealtà, definisci verità. Fui costretto a smettere perché la cosa rischiava di uccidermi”.

Molti dei personaggi di DeLillo cercano nei concetti, nei nomi la sostanza delle cose – il più esemplare è forse Murray, il professore di Rumore bianco – e sembrano in un modo o nell’altro dei superstiti di una lunga tradizione filosofica occidentale che ha cercato nelle essenze universali un modo per stare nel mondo. In Zero K Jeffrey appare così spaesato come platonico impazzito che il suo analfabetismo cognitivo non funziona come metafora di altro smarrimento. E l’ossessione per i nomi rischia di diventare feticismo. Come è feticistico l’uso della letteratura e perfino della scrittura in sé.

“Volevo leggere Gombrowicz in polacco. Non conoscevo una sola parola di polacco. Conoscevo solo il nome dello scrittore e continuavo a ripetermelo sia mentalmente che a voce. Witold Gombrowicz. Volevo leggerlo in originale. Questa espressione mi affascinava. Leggerlo in originale. Io e Madeline a cena, eccoci, con davanti uno stufato umidiccio nelle scodelle per i cereali; io ho quattordici o quindici anni e mi ripeto in continuazione quel nome a bassa voce, Gombrowicz, Witold Gombrowicz, vedo ogni singola lettera che lo compone nella mia testa, lo dico, nome e cognome – come non amarlo? –, finché mia madre non alza lo sguardo dalla scodella e non mi rivolge un sussurro tagliente: ‘Basta’”.

“A volte per staccare l’etichetta ci metteva anche diversi minuti, ma lei agiva con calma, un pezzetto per volta, poi l’arrotolava tra le dita e la buttava nella spazzatura sotto il lavello della cucina.[…] Comunque non mi muovevo e anzi mi irrigidivo, invisibilmente, e aspettavo che succedesse qualcosa. Sembrava che alcune parole galleggiassero nell’aria davanti a me, a portata di mano. Bessarabico, penetràli, pellucido, falafel. Vedevo me stesso dentro queste parole”.

Ma le pagine che davvero sono malriuscite di tutto Zero K sono il monologo interiore di Artis al momento della sua criogenizzazione: è una piccola sezione incastonata tra le due parti corpose che costituiscono le due metà del libro. DeLillo si prende un grande rischio immaginando come possa esprimersi una coscienza priva del corpo. Nell’intervista a Giuseppe Genna dice di aver scritto quella scena in due giorni. Viene da dire, con l’immodestia ma con la gratitudine infinita di chi si confronta con uno dei più grandi autori viventi: si vede, purtroppo.

Lei è prima e terza persona insieme.

L’unico qui è dove sono. Ma dov’è qui? E perché solo qui e da nessun’altra parte?

Quello che non so è proprio qui con me, ma come faccio a fare in modo di conoscerlo?

Sono qualcuno o sono solo le parole che mi fanno pensare di essere qualcuno?

Perché non posso sapere di più? Perché solo questo e nient’altro? O devo aspettare?

È in grado di dire cosa prova ed è anche la persona che è al di fuori di queste sensazioni.

Le parole sono l’unica realtà? Sono io stessa nient’altro che parole?

Questa è la sensazione che provo, che le parole vogliono dirmi delle cose, ma io non so come ascoltare.

Ascolto quello che sento.

Sento solo quello che è me. Sono fatta di parole.

Forse, mi veniva da pensare alla fine della lettura di Zero K, se non avessimo nei confronti di scrittori che hanno fatto la storia della letteratura contemporanea un atteggiamento reverenziale ma confrontassimo le loro intenzioni con i loro risultati alla luce degli insegnamenti che loro stessi ci hanno lasciato maturare faremmo un piacere a noi stessi, ai lettori, e perfino a loro.

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