09 gennaio 2020 12:00

Mai come nel 2019 è stata commemorata la strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969: una bomba alla sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura causò 17 morti inaugurando l’epoca dello stragismo degli anni settanta. Nelle celebrazioni ufficiali il sindaco di Milano Beppe Sala ha chiesto scusa alla famiglia del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli a nome della città, mentre il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha presenziato alla seduta straordinaria del consiglio municipale a palazzo Marino.

Non c’entra solo l’anniversario tondo, cinquant’anni, ma soprattutto la distanza grazie alla quale finalmente possiamo assumere una prospettiva storica in grado di imporsi sul racconto giudiziario, su quello politico, su quello complottista, sulla cronaca e sulla narrazione letteraria e memoriale (qui un importante documentario di Vanessa Roghi trasmesso dalla Rai il 13 dicembre). E poi molto si deve agli studi molto consistenti che sono stati realizzati in questi anni.

L’ultima occasione in cui piazza Fontana era tornata potentemente nel dibattito pubblico era stata nel 2009, per il quarantesimo anniversario, con la pubblicazione del libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana (tre edizioni aggiornate, l’ultima nel 2019), che ha ispirato il fortunato film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage (2012), a cui era seguita una lunga scia di polemiche e prese di posizione.

La tesi di Cucchiarelli e in parte del film era che a piazza Fontana fossero state collocate due bombe: i neofascisti veneti di Ordine Nuovo (a cui ormai viene attribuita unanimemente una responsabilità storica di molte stragi, ma che da un punto di vista giudiziario hanno ricevuto condanne e assoluzioni in parte contraddittorie) avrebbero infiltrato gli anarchici e li avrebbero usati per coprire la loro strage. Pietro Valpreda, tra i primi indagati (e poi scagionato), e altri suoi compagni anarchici avrebbero agito pensando di aver messo solo un ordigno dimostrativo (i loro attentati di solito non provocavano vittime): a fare la strage sarebbe stato un secondo ordigno, piazzato dai neofascisti, e loro si sarebbero trovati a essere indicati come colpevoli di un’azione da guerra civile. Contro la complicata ipotesi di Cucchiarelli avevano scritto in molti, tra cui Adriano Sofri con una lunga disamina in ebook (43 anni, piazza Fontana, un libro, un film, 2012) o in maniera più sintetica lo storico Aldo Giannuli.

Tra gli ultimi testi usciti la tesi della doppia bomba non sembra trovare favore. Se quindi c’è chiaramente ancora molto da accertare rispetto all’attentato, d’altra parte è innegabile che esistono invece molti elementi riconosciuti come incontrovertibili da tutti gli autori di questa recente tornata editoriale e dalle nuove edizioni di testi ormai classici come quello di Giorgio Boatti, Piazza Fontana, edito da Einaudi. Qui una selezione parziale:

Una delle questioni storiografiche – e quindi politiche – poste dalla vicenda di piazza Fontana è che per raccontarla sembra non si possa prescindere da altri fatti drammatici successivi.

  1. La morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli il 15 dicembre 1969, precipitato dalla finestra della questura di Milano dove si trovava, tra i primi indagati per l’attentato, per un fermo prolungato oltre i termini legittimi. Da un punto di vista giudiziario, l’ultima sentenza – del 1975, a firma del giudice Gerardo D’Ambrosio – attribuisce la sua morte a un “malore attivo”; sentenza che ha ovviamente lasciato moltissimi insoddisfatti e indignati.
  2. La furiosa ondata stampa e politica contro il commissario Luigi Calabresi e la squadra della questura di Milano considerati responsabili della morte di Pinelli, che coinvolse la maggior parte dei movimenti politici di allora e anche moltissimi intellettuali militanti e non. Una massa copiosa di canzoni, film, documentari, testi: da Pinelli. Una finestra sulla strage di Camilla Cederna, a Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo a Tre ipotesi sulla morte di Pinelli di Elio Petri con Gianmaria Volonté, a un famoso appello dell’Espresso con 750 e più firmatari, tra cui Umberto Eco e Norberto Bobbio. Tra i più virulenti protagonisti di questa campagna ci fu il gruppo e il giornale di Lotta continua, di cui Adriano Sofri era un leader.
  3. L’assassinio di Luigi Calabresi la mattina del 17 maggio 1972, per il quale furono accusati nel 1988 e condannati definitivamente a 22 anni nel 1997 dopo un iter giudiziario tormentatissimo tre militanti di Lotta continua: lo stesso Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Sofri ha scontato la pena, Bompressi è stato graziato, Pietrostefani è latitante in Francia. I tre si sono sempre dichiarati innocenti.

Questo decennio appena trascorso sembra un decennio-luce; i testi usciti negli ultimi mesi riescono a spostare molto in avanti il percorso di conoscenza di quella stagione, e perfino nei toni il discorso pubblico sa oggi coinvolgere posizioni opposte per storia, militanza, analisi. Il vantaggio maggiore di alcuni di questi libri è poter partire da un riconoscimento delle memorie: lo shock chiamato “perdita dell’innocenza” di un’intera generazione politica che torna in molti dei testi su piazza Fontana. In questo senso è significativo anche il fatto che Licia Rognini e Gemma Capra, le vedove di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi, fossero entrambe presenti alla commemorazione di Mattarella. L’intelligenza di questi autori sta anche nel ribadire come la memoria non debba però appropriarsi delle prerogative della storia: per questo in diversi hanno messo tra parentesi i corollari di piazza Fontana (proprio la morte di Pinelli e l’omicidio Calabresi) e si sono concentrati sul prima e sugli effetti degli avvenimenti drammatici rispetto alla storia politica successiva.

Illuminare in modo imprevisto
Va dato merito innanzitutto a chi questi libri li ha scritti per il lavoro di indagine coraggioso oltre che minuzioso. In particolare i testi degli autori che quegli anni non li hanno vissuti se non da piccolissimi, ma ne hanno vissuto gli effetti anche tremendi; questa storia degli anni settanta attraverso un’analisi anche del portato politico ha forse la capacità di proiettare retrospettivamente una luce che illumina molto e in modo imprevisto.

È soprattutto al lavoro di Benedetta Tobagi, Il processo impossibile, che ricostruisce la vicenda giudiziaria di piazza Fontana, e a quello di Paolo Morando, Prima di piazza Fontana. La prova generale, che va data attenzione. Questo secondo saggio è uno spartiacque proprio perché non è dedicato direttamente alla strage nella Banca nazionale dell’agricoltura ma agli attentati dimenticati: quelli del 25 aprile 1969 a Milano (alla fiera campionaria e alla stazione centrale, non fecero morti per fortuna); la pulviscolare attività terroristica dell’estate del 1969, con molti treni come obiettivi, anche qui per fortuna senza vittime; una serie bombe inesplose che precedettero piazza Fontana. Morando non la cita espressamente, ma va ricordata anche la bomba inesplosa alla scuola slovena di Trieste. Paolo Morando, non uno storico ma un giornalista del Trentino, ha messo insieme la verità giudiziaria con quella della memoria, e ne ha tratto un testo che è un punto di non ritorno.

In questo saggio Morando riesce a concludere in modo incontrovertibile alcune verità storiche.

La prima è che i neofascisti di Ordine Nuovo – che per questi attentati riusciti e falliti sono stati condannati in via definitiva – hanno ideato e sviluppato un programma terroristico per la destabilizzazione della democrazia italiana in senso autoritario, e lo hanno fatto per almeno un lunghissimo decennio in simbiosi con una rete di neofascismo internazionale e un apparato statale coinvolto ben oltre la dicitura “servizi segreti deviati”.

La seconda è che la repressione poliziesca nei confronti dei movimenti di sinistra, e tra questi gli anarchici, è stata violenta, anche qui ben oltre quello che possiamo considerare uno stato di diritto giustificato dall’emergenza politica di quegli anni; i metodi adottati dagli uomini della questura di Milano furono deprecabili molto prima di piazza Fontana.

La terza è che la pista anarchica fu pensata da subito come il capro espiatorio sul quale rovesciare un sistema accusatorio pieno di falle, strumentalizzazioni, testimoni non credibili e prezzolati, che servì a orientare l’opinione pubblica ma si dimostrò inconsistente dal punto di vista giudiziario.

Queste stesse conclusioni si trovano raccontate in presa diretta dal saggio narrativo molto coinvolgente di Enrico Deaglio, dalla ricostruzione di Giovanni Dianese e Gianfranco Bettin, dal resoconto del giudice Guido Salvini. Quest’ultimo è un libro straordinario per la potenza della testimonianza civile.

Il lavoro monumentale di Tobagi – frutto di un dottorato di ricerca che ha potuto svolgere all’università di Bristol – invece ha altri molti pregi, tra cui due innegabili: aver fatto una storia d’Italia attraverso la storia dei processi e quindi della magistratura, dei conflitti annodati intorno alle ideologie della giustizia politica; e aver sciolto l’incanto della formula che ha accompagnato per cinquant’anni piazza Fontana e tutti gli anni settanta, “la strage di stato”. Tobagi è netta: c’è stata una parte consistente degli apparati statali, a partire dal famigerato Ufficio affari riservati, che ha agito in modo criminale per più di un decennio, operando contro la costituzione e a favore di una svolta antidemocratica e neofascista. Anche per Tobagi non ha senso parlare di “servizi segreti deviati”, perché la presenza di questa comunità criminale all’interno delle istituzioni era massiva e organica; al tempo stesso però non ha senso, dopo aver letto il suo libro, usare l’espressione “strage di stato”.

La “strage è di stato” fu, all’inizio, un’intuizione, potente, liberatoria, quasi profetica. Poi si è sclerotizzata, irrigidita in uno schema ideologico. Al pari dell’”io so” di Pasolini, che è stato saccheggiato e stravolto al punto da essere ridotto a sterile slogan, depauperato e irrigidito in una maschera.

Il merito di Tobagi è di aver usato un approccio laico e illuminista, e aver riconosciuto le figure di “poliziotti, carabinieri, finanzieri corretti e scrupolosi, legali e giuristi, che hanno condotto una battaglia pubblica per portare alla luce quanta più verità possibile e insieme per riformare la giustizia nel solco della costituzione”.

Liberare il dibattito
Ci sono altre questioni aperte che esplodono dalla lettura di questi libri, soprattutto quando emerge la discrasia tra la dimensione giudiziaria e quella storica; ed è giusto che questo dibattito non rimanga incastrato intorno alla data dell’anniversario, ma si squaderni nei prossimi mesi, come auspica in questo pezzo Mauro Piras.

Una questione è quella della centralità del neofascismo nella storia della repubblica italiana, a partire per esempio dalla figura di Franco Freda, oggi uomo libero, a capo delle edizioni di Ar. Sicuramente un filone storiografico fecondo che sarà riempito nei prossimi anni. È esemplare il saggio che gli dedica Elia Rosati in Dopo le bombe, leggendo anche Non ci sono innocenti – il romanzo scritto da Anna K. Valerio (moglie di Freda) e sua sorella Silvia Valerio – dove sono raccontate le imprese di Freda trasfigurato nel personaggio dell’Autocrate che appare come una specie di eroe bandito.

La seconda questione è il bisogno di una rilettura storica della figura del commissario Luigi Calabresi, che possa reinquadrarla laicamente al di là della campagna feroce di cui fu oggetto dopo la morte di Pinelli, al di là del suo brutale assassinio, ma anche al di là delle memorie private – del figlio, il giornalista Mario, e della vedova Gemma Capra – e della causa di beatificazione intentata da sacerdoti legati a formazioni neofasciste.

La terza è il nodo Pinelli. Recentemente intorno alla possibilità di riapertura di un processo sulla sua morte si è riavviato un dibattito che ha coinvolto di nuovo Adriano Sofri, autore di La notte che Pinelli (Sellerio, 2009), Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Gianni Barbacetto e altri che valutano in modo diverso gli atti, le proprie memorie e quelle di testimoni importanti. Più questo dibattito riuscirà a coinvolgere sia il piano pubblico sia la ricerca storica, più i risultati che troveremo saranno utili e decisivi per la nostra comunità democratica.

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