12 dicembre 2020 09:51

“Era proprio la scuola il covo del razzismo e del pregiudizio, creava forti shock psicologici in noi bambini sinti non solo perché ricevevamo un’educazione diversa dalla nostra famiglia, ma anche perché a scuola si diventava diversi. A scuola, purtroppo, non eri più un sinto ma diventavi uno zingaro dal quale era meglio stare alla larga”.

Queste parole fanno parte dell’intervista che la ricercatrice di origine sinti Eva Rizzin fece a sua madre, Susy Reinhardt, cresciuta negli anni settanta del novecento in una classe speciale per “zingari e nomadi”.

Di rom e sinti si parla solo per mostrare quanto siano paradossali ed estreme alcune situazioni di disagio: sono di questi giorni le notizie della bambina di quattro anni che a Torino non può usare il pulmino scolastico perché non ha una residenza e del possibile sgombero del campo di Castel Romano, poi sospeso. Molto meno evidenti sono i processi di lungo corso. Per esempio la storia della scolarizzazione dei bambini rom e sinti in Italia, che ha una dolorosa continuità ed è legata alle classi speciali.

Qualche anno fa la prima superiore di un istituto comprensivo di Pescara fu “riservata” solo ai rom; erano i figli delle famiglie rom abruzzesi presenti in quell’area da secoli. La dirigente scolastica, chiamata in causa per motivare la costruzione di una classe su base etnica, presentò quella scelta come l’inizio di un “processo didattico innovativo”. Ma si può considerare la creazione di una classe differenziale come un progetto innovativo, oppure la storia della scuola italiana ha già mostrato quali sono i risultati di concepire come speciale l’educazione dei rom e dei sinti?

Le classi del buon cammino
In Italia le classi differenziali furono abolite nel 1977 con una riforma epocale che fece della scuola italiana un’avanguardia nelle politiche dell’inclusione. Ma non tutte furono eliminate: per altri cinque anni – fino al 1982 – rimasero attive le cosiddette classi Lacio drom (Buon cammino, in lingua romanì).

Queste classi speciali erano state istituite nel 1965 per quelli che allora venivano genericamente definiti “zingari”, grazie a una convenzione tra il ministero dell’istruzione, l’Opera nomadi e l’istituto di pedagogia dell’università di Padova. La stessa convenzione fu aggiornata nel 1974 prevedendo l’inserimento nelle classi comuni ma “senza abolire quelle speciali”, che avrebbero dovuto mantenere una funzione di recupero per quegli alunni “nomadi” con ritardo scolastico o per quelli con frequenza irregolare. Con questa funzione di recupero le classi Lacio drom sopravvissero anche agli anni ottanta: la terza e ultima convenzione del 1982 stabilì che tutti i bambini “zingari e nomadi” fossero inseriti in classi ordinarie; ma bisognò aspettare il 1986 per il loro effettivo svuotamento.

Tuttavia, le classi Lacio drom hanno influenzato le politiche di scolarizzazione di rom e sinti anche dopo la loro abolizione. Su questa lunga vicenda c’è poca bibliografia critica e quella che esiste è molto recente. Non se ne sono praticamente mai occupati gli storici della scuola, pochissimo gli studiosi di storia sociale, e quello che abbiamo per comprendere questo fenomeno di lunga durata viene soprattutto dalla pedagogia e dall’antropologia.

La rivista Lacio Drom rappresentò per almeno un ventennio l’unica pubblicazione di carattere scientifico dedicata alla questione rom

Le classi Lacio drom furono istituite soprattutto grazie all’interesse della pedagogista Mirella Karpati, una figura centrale in questa storie e anche lei poco studiata. Nel 1963 a Bolzano Bruno Nicolini fondò l’Opera nomadi, che riuscì nel giro di pochi anni a diventare l’ente di riferimento per le politiche sui rom e i sinti in Italia, e a essere il soggetto principale per la loro rappresentanza e il rapporto con le istituzioni. Lo è in parte ancora oggi, nonostante siano nate e cresciute molte altre associazioni.

Accanto a don Nicolini ci fu da subito Karpati. Fu lei nel 1965 a fondare il Centro studi zingari che si sarebbe occupato della parte pedagogica dell’Opera nomadi, e nello stesso anno a lanciare la rivista Lacio Drom, che Karpati diresse fino al 1999. Fu per almeno un ventennio l’unica pubblicazione di carattere scientifico dedicata esclusivamente alla questione rom, l’unico riferimento per ricercatori, associazioni, amministratori.

Filo rosso
L’impatto di quella che Karpati stessa definiva “pedagogia zingara” è stato sicuramente determinante nell’inquadrare non solo il rapporto tra i bambini rom e sinti e la scuola, ma l’intera storia politica dei rom in Italia. Il suo approccio rispetto alla scolarizzazione è che “la cultura zingara sia un deficit in sé, e che il bambino dev’essere aiutato a crescere, recuperando il ritardo”. Non è difficile riconoscere oggi quanto quest’approccio sia problematico, anche se all’epoca fu il primo tentativo di affrontare la questione dell’inserimento scolastico, e non solo, dei bambini rom e sinti.

Alcuni studiosi hanno provato a metterlo in prospettiva. Vanno citati almeno Luca Bravi, Eva Rizzin, Gabriele Roccheggiani, Carlo Stasolla, e il pionere Leonardo Piasere.

Bravi ha colto il carattere ambivalente se non autocontraddittorio dell’approccio di Karpati. In Tra inclusione ed esclusione mostra come la “pedagogia rieducativa” di Karpati ricordasse – per esempio nel suo libro Romano them (Mondo zingaro) – le teorie di Hermann Arnold, ufficiale medico tedesco autore del libro Die Zigeuner, che fino agli anni settanta del novecento continuò a riproporre le idee eugenetiche per il controllo delle nascite tra i rom, e che a sua volta ebbe come punto di riferimento culturale lo psichiatra infantile tedesco Robert Ritter, direttore dell’unità di igiene razziale di Berlino e la sua assistente Eva Justin, ossia i principali teorici della segregazione dei rom durante il nazismo. Bravi afferma quindi che ci sia un filo rosso che parte dal mondo dell’eugenetica e arriva al lavoro di pedagogisti e attivisti con le famiglie rom giunte dai Balcani nelle periferie italiane alla fine degli anni sessanta.

Un esito impietoso
I risultati dei test a cui tra il 1971 e il 1972 furono sottoposti gli “zingarelli” nelle classi Lacio drom, con l’obiettivo di misurare l’intelligenza e lo sviluppo mentale dei bambini, furono diffusi attraverso la rivista omonima. Si scrisse di “un diverso livello intellettuale tra ragazzi zingari e non zingari”, con ulteriori differenze tra “zingari del nord” e “zingari del sud”.

In Popoli delle discariche lo studioso Leonardo Piasere compie un’analisi trasversale sulle riviste Lacio drom, facendo notare che almeno il venti per cento della produzione è costituita da lavori sull’educazione: circa 1.200 pagine sulle 5.760 pagine. In questi articoli solo una volta viene scritto che “i genitori zingari sono atti a ben educare i loro figli”.

A partire dagli anni sessanta la scuola italiana diventò il luogo per la “rieducazione zingara”. Vent’anni dopo alla scuola si affiancò il campo nomadi come spazio abitativo rieducativo. Lì furono concentrate famiglie che secondo i test di Karpati erano composte da persone con “un’intelligenza ben distante dalla normalità”, “ritardati mentali”. Lo scuolabus solo per rom, quello che ogni mattina conduce i bambini dei campi a scuola (sempre con grande ritardo a causa della lontananza), è il raccordo tra due dispositivi segregativi e discriminatori che amputano coscientemente il futuro di generazioni di rom.

“A Roma, per esempio, non si contano i milioni spesi dal 1993 a oggi per la scolarizzazione dei minori rom, con risultati drammatici”, dice Carlo Stasolla. Secondo la ricerca Ultimo banco della sua associazione, 21 luglio, tra il 2009 e il 2015 nella capitale un minore rom su cinque non si è mai presentato in classe; sui 1.800 iscritti a scuola, solo 198 hanno frequentato almeno tre quarti dell’orario scolastico; nove minori rom su dieci non frequentano con regolarità e, per legge, non potrebbero essere ammessi allo scrutinio di fine anno; un minore rom su due è in ritardo scolastico e frequenta quindi una classe non conforme alla sua età; i minori che frequentano le superiori si contano sulle dita di una mano.

La giunta Raggi nel suo “Piano rom” ha ridotto il servizio di mediazione, limitandosi a osservare che “gli stessi rom in molti casi sono proprietari di automezzi” e quindi il problema va risolto incentivando la gestione autonoma dell’accompagnamento scolastico. E così l’anno passato il 56 per cento in meno di bambini rom è risultato iscritto alla scuola dell’obbligo rispetto all’anno scolastico 2015-2016. Tra gli obiettivi del piano è prevista la partecipazione dei giovani rom all’istruzione universitaria. Basta leggere i dati per vedere che a Roma solo il 4 per cento delle ragazze e dei ragazzi che vivono nei campi riesce a raggiungere la terza media.

Il paradigma delle classi Lacio drom, della “pedagogia zingara”, della scolarizzazione di rom e sinti è una lunga storia di segregazione, di una sedicente inclusione che finisce per legittimare ancora di più l’esclusione e il ghetto. Per approfondire questo tema è bene scaricarsi il saggio di Luca Bravi del 2019, Rieducare i rom e sinti tra passato e presente. Il genocidio e l’etnocidio culturale e vedersi questa conferenza di Gabriele Roccheggiani del 2018, Escludere includendo. Teorie e pratiche socio-educative nelle classi speciali Lacio drom.

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