17 luglio 2015 12:10

Mentre capisco il desiderio di mettere su famiglia, mi sfugge il motivo per cui una coppia omosessuale sia interessata a un’istituzione in crisi, forse perfino già superata, come il matrimonio.–Gabbo

Da ragazzino, quando mi sono reso conto di essere gay, mi è stato subito chiaro che con i miei genitori le argomentazioni teoriche non avrebbero funzionato. L’unico modo per fargli capire che un figlio omosessuale non era una tragedia era mostrargli con i fatti che la mia vita non sarebbe stata molto diversa da quella dei miei amici etero. Erano genitori borghesi e dovevo affrontarli sul loro terreno, con le loro regole.

Così, vincendo il mio imbarazzo e le loro resistenze, ho cominciato a portargli a casa ogni ragazzo con cui ho avuto una storia, rendendoli partecipi della mia vita sentimentale, fino al mio matrimonio qualche anno fa in Svizzera, quando si sono finalmente resi conto che non restava più nulla di cui preoccuparsi. Ebbene, ora non è che tutte le coppie gay d’Italia vogliano sposarsi: non è quel pezzo di carta a definire i nostri sentimenti, perché ormai abbiamo imparato a legittimarli solo con la forza dell’impegno reciproco. Però la società è una grande madre borghese e, per convincerla che siamo figli degni anche noi, dobbiamo giocare secondo le sue regole e ottenere la piena legittimazione attraverso il matrimonio. O almeno la possibilità di poterlo contrarre.

Una volta che avremo tutti gli stessi diritti, gay ed etero, magari lavoreremo insieme per rinnovare questa istituzione superata. Però, sia ben chiaro, con mia madre stavolta ci parli tu.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it