11 febbraio 2021 12:25

Il 2003 è stato un anno memorabile per la musica afroamericana. Era il momento di 50 Cent e del debutto solista di Beyoncé. Era l’anno di grazia di Outkast e Missy Elliott, la cui carica innovativa sembrava inesauribile. Justin Timberlake e Christina Aguilera riempivano gli stadi con il loro pop mutante, bianco fuori e nero dentro in un momento in cui l’appropriazione culturale non sembrava ancora un problema. In mezzo a tanto clamore alcuni grandi dischi, magari non perfettamente in sintonia con i tempi, sono passati ingiustamente inosservati. Uno tra tutti: il debutto della cantante soul del Bronx Stephanie McKay.

La voce e lo stile di McKay sembravano arrivare dritti dai primi anni settanta e avevano la dolcezza e l’asprezza di grandi artiste del passato come Vicki Anderson o Lynn Collins. A rendere particolarmente interessante il suo debutto è la produzione, affidata a Tim Saul e a Geoff Barlow dei Portishead. Il suono volutamente sporco e disturbato tipico della band di Bristol fa da contrappunto alla voce dinamica e versatile di Stephanie McKay. Il modus operandi dei Portishead è inconfondibile: strumenti vintage campionati e messi in loop su supporti volutamente lo-fi. La caratteristica che ha reso unico Dummy dei Portishead, ovvero quell’uso opaco della tecnologia che anziché rendere il suono più definito e brillante lo avvolge in fruscii da vecchio vinile e sibili di nastri analogici, è presente in tutto l’album di MacKay.

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È l’interazione sorprendente tra questo modo di suonare e la voce della cantante a rendere McKay qualcosa di unico, il reperto vintage di un soul americano che non c’è mai stato. Il critico canadese RJ Wheaton, nella sua monografia su Dummy uscita nel 2011, accenna qualcosa sulle intenzioni di Geoff Barlow nella produzione del disco di McKay: “Volevo cercare di sposare i beat che ci piacevano a un’autentica vocalist soul americana”. La voce ricca e piena di autorevolezza di Stephanie McKay per Barlow è una finestra aperta sul soul statunitense, una boccata d’aria fresca dopo le atmosfere cupe e da film noir dei suoi due album con i Portishead.

Sarebbe un errore concentrasi solo sulla produzione di Barlow e liquidare McKay come una turnista, per quanto di lusso. Le canzoni sono tutte inconfondibilmente sue: le armonizzazioni gospel unite alla dimestichezza con il funk di James Brown e l’influenza della Motown non arrivano certo dalle nebbie di Bristol, ma sono una materia viva, tratta dalla sua storia e dal suo vissuto di artista afroamericana.

McKay
McKay
Go Beat, 2003

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