21 marzo 2023 15:55

Il chitarrista, tastierista e cantante britannico Martin Lee Gore è sempre stato l’ispiratore dell’estetica e del suono dei Depeche Mode. E il materiale del loro nuovo album in uscita venerdì, Memento mori, il quindicesimo della loro lunga carriera, non fa che confermarlo. Un recente articolo del New York Times intitolato The exquisite darkness of Depeche Mode (“La magnifica oscurità dei Depeche Mode”) ripercorre le complicate dinamiche creative che vedevano Gore spesso in contrapposizione con gli altri componenti della band, specialmente con il cantante Dave Gahan. La morte, nel maggio del 2022, di uno dei fondatori dei Depeche Mode, Andrew Fletcher, ha costretto Gahan e Gore a confrontarsi senza intermediari e a decidere se fossero pronti a proseguire come duo.

Apparentemente era proprio Fletcher a fare da interfaccia tra due personalità che non potevano essere più diverse: il silenzioso, introverso e molto poco macho Gore e l’istrionico ed espansivo Gahan, la rockstar che ha permesso al gruppo di sfondare, dalla fine degli anni ottanta in poi, negli stadi di tutto il mondo. La differenza tra i due era anche nelle voci: un romantico tenore acuto Gore e un robusto basso baritono Gahan.

I Depeche Mode crescevano, la loro fama raggiungeva livelli impensabili ma l’estetica era sempre quella dark, un po’ perversa e malinconica di Martin Gore, l’eterno outsider del gruppo. Personalmente ho sempre avuto un debole per pezzi dei Depeche Mode cantati da Martin Gore, un esempio tra tutte: le ballate Somebody e A question of lust che sotto l’apparenza facile e melodica sono piene di inquietudine e di ambiguità. E poi c’è l’intero album Black celebration, forse il più compiutamente dark e il più Martin Gore di tutti gli album della band. Martin canta cinque canzoni su undici. È un album nero, che suggerisce oscuri presagi e racconta di macchine che soffocano l’anima delle persone, di paranoia, persecuzione e nichilismo. Se c’è stato un gruppo che ha usato l’elettronica per criticare una società sempre più dipendente dalla tecnologia quelli sono stati i Depeche Mode guidati da Martin Gore.

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Nel giugno del 1989, proprio l’anno decisivo in cui i Depeche Mode si trasformavano in una band che riempiva gli stadi, Martin Gore fa uscire quasi di nascosto un minialbum solista intitolato Counterfeit, ovvero “contraffatto”, “falso”. Counterfeit contiene sei cover che in qualche modo tracciano una mappa delle sue ispirazioni e ossessioni musicali. È un piccolo album interamente autoprodotto che ha l’aria di essere una sorta di talismano, un sestante per ritrovare la strada di casa durante l’interminabile tour nell’America del Nord.

Nel marzo di quell’anno era uscito anche 101, il primo album live dei Depeche Mode, che documentava la tournée dell’album Music for the masses. L’album è registrato come quei vecchi live degli anni settanta, con il ruggito del pubblico sempre in primo piano e l’elettronica metallica e implacabile dei Depeche Mode che si riverbera in stadi gremiti di umanità. Counterfeit sembra un antidoto a quel suono, soprattutto a quel sottofondo onnipresente della folla che ondeggia al ritmo di sequenze di drum machine e di loop di tastiere. Counterfeit è il suono della solitudine, un’elettronica elementare, fatta di silenzi e di spazi dilatati. Un’elettronica scarna che incornicia una serie di vecchie, sceltissime canzoni, alcune note e altre assolutamente oscure, come se fossero degli ex voto. O dei feticci magici.

Compulsion è un pezzo del 1981 dell’artista post-punk di Birmingham Joe Crow, un singolo dimenticato di quel periodo in cui Ian Curtis dei Joy Division era morto da poco e le giovani band, tra cui gli stessi Depeche Mode, cominciavano a fare i conti con la sua eredità. Compulsion sembra la lettera di un suicida che sta cercando il coraggio di farla finita. Gore rimane abbastanza aderente all’arrangiamento originale (in cui Crow da solo suonava tutti gli strumenti), ma rende la canzone ancora più claustrofobica togliendo anche quel tenue filo d’aria che lasciava passare. Allo stesso tempo però ne sottolinea l’aspetto melodico con una tastiera che sembra una fisarmonica lontana. Il modo con cui viene trattata una canzone come Compulsion è Martin Gore in purezza: un argomento tragico declinato con dolcezza dalla sua fragile voce di tenore e sostenuto da un’elettronica sottile, capace di inaspettati squarci lirici. È indicativo anche che Compulsion sia il pezzo dell’ep che più somiglia alle prime canzoni dei Depeche Mode, quelle dell’album Speak & spell, un debutto che già nasceva sotto il segno dei litigi e delle incomprensioni. Il primo disco non era neanche uscito quando Vince Clarke, uno dei fondatori del gruppo, decideva di andarsene per fare altro (gli Yazoo prima e gli Erasure poi) lasciando tutte le decisioni a Gore, che diventava l’unico compositore della band.

In a manner of speaking è invece la cover del brano più famoso di un’altra band post-punk ma stavolta statunitense, i Tuxedomoon. Qui Gore prende una linea melodica che nell’originale sembra solo fischiettata e la rende l’asse portante del pezzo: quella che era una canzone sospesa e dolcemente malinconica diventa molto più drammatica nell’arrangiamento di Gore che dà molto peso al ritornello: “Give me the words that tell me nothing, give me the words that tell me everything”, dammi le parole che non dicono niente, dammi le parole che dicono tutto. Tematicamente In a manner of speaking suggerisce già l’atmosfera di uno dei più grandi successi futuri dei Depeche Mode: cos’è Enjoy the silence se non la resa incondizionata di chi ha capito che le parole non servono più a nulla?

Smile in the crowd è un pezzo dei Durutti Column, uno di quei gruppi della new wave britannica che hanno avuto un seguito quasi religioso. L’artista qui ha più difficoltà a rendere elettronicamente gli intricati e impalpabili arrangiamenti del chitarrista Vini Reilly e del batterista Bruce Miller, quindi fa quello che gli viene naturale: radicalizza l’aspetto percussivo del pezzo e lascia solo la voce adagiarsi sulla melodia impeccabile della canzone. Non cerca di sfidare l’originale dei Durutti Column sul terreno dell’astrazione e della raffinatezza, ma ne sfrutta al massimo la linea melodica. Per fare suoi i Durutti Column Martin Gore li afferra e li trascina giù a terra. Forse non è la più sottile delle operazioni, ma dimostra con quanto amore, anche un po’ disperato, tratti queste canzoni.

Anche Gone è un pezzo dimenticato del post-punk britannico e anche Gone arriva dal 1981, lo stesso fatidico anno in cui debuttarono i Depeche Mode. La canzone fa parte dell’unico album di successo dei Comsat Angels, una band di Sheffield che ha avuto il solo difetto di essere arrivata troppo presto. Gore si tuffa con gusto in questo pezzo di cui, altra sua specialità, sviscera tutto il potenziale pop. Martin Gore nel 1989 non sa ancora che i Comsat Angel sarebbero stati riscoperti nei primi anni duemila da tutte quelle band del revival post-punk (Interpol, Editors e Bell Hollow) ma è come se lo supponesse.

I pezzi davvero strani arrivano alla fine. Con Never turn your back on Mother Earth Martin Gore rende omaggio a una delle band rock più eclettiche e inafferrabili degli anni settanta: gli Sparks. Anche Siouxsie and the Banshees, nel 1987, avevano inserito in un loro album di cover un pezzo degli Sparks (This town ain’t big enough for the both of us). È come se questa band californiana che aveva anticipato qualunque tendenza, dal glam rock al disco-pop, passando per cabaret musicale e new wave, fosse un feticcio segreto di tutti quegli artisti che si erano trovati a fare i conti con la dissoluzione dell’estetica punk. Never turn your back on Mother Earth, “Mai voltare le spalle a Madre Terra”, rientra perfettamente nell’estetica techno-ambientalista dei Depeche Mode: praticamente in ogni loro album c’è almeno un pezzo che parla di come l’industrializzazione abbia distrutto l’ambiente naturale. Gore la canta godendosi tutta la facilità e la felicità della sua melodia e fa volare la sua voce di tenore leggerissimo in un falsetto cristallino.

La sua performance vocale migliore però è la più sobria ed è riservata per l’ultimo pezzo: Motherless child, uno spiritual che, nella splendida versione cantata da Odetta, fu usato da Pier Paolo Pasolini in una scena del Vangelo secondo Matteo. Gore sa benissimo che Sometimes I feel like a motherless child (questo il titolo completo dello spiritual) è stata cantata da chiunque in modo eccelso o meno eccelso (ne esiste anche una versione disco cantata dai Boney M), quindi non prova neanche a fare una cosa di maniera.

L’aspetto solenne e drammatico del pezzo lo delega a un arrangiamento elettronico che simula degli archi ma allo stesso tempo inserisce distorsioni e rumori. Il cantato è ridotto al minimo e asciugato di ogni manierismo: c’è solo un accenno di vibrato alla fine. La scelta di uno spiritual come finale di un disco che fondamentalmente è un omaggio alla new wave dei primissimi anni ottanta sembra strana solo se si ignorano gli sviluppi posteriori della musica dei Depeche Mode. Motherless child apre uno spiraglio sugli anni novanta di Songs of faith and devotion e sui duemila di Exciter e Delta machine, con cui Gore cercava una via elettronica alle influenze gospel e blues che stava assorbendo negli Stati Uniti.

Counterfeit, questa piccola raccolta di canzoni feticcio a cui Martin Gore si è aggrappato in un anno particolarmente complicato e trasformativo della sua carriera, è la bussola ideale per cominciare a orientarsi nei mondi sonori che i Depeche Mode ci apriranno tra qualche giorno con il loro nuovo album.

Martin L. Gore
Counterfit ep
Mute, 1989

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