11 luglio 2023 14:07

“Sono stata chiamata una cantautrice erotica”, scrive Lucinda Williams nel suo memoir Don’t tell anybody the secrets I told you, “e sono abbastanza d’accordo, anche se, pur avendo fatto molto sesso da giovane, non sono mai stata promiscua. Per me la vera zona erogena è il cervello, quindi devo avere una connessione intellettuale, o quasi spirituale, con qualcuno prima di trovarlo fisicamente attraente. E questo di rado accade velocemente (…). Da ragazza ho cominciato a essere attratta da un certo tipo di uomo, e ne sarei rimasta attratta per il resto della vita. Ho provato a descrivere questo genere di uomo come ‘un poeta su una moto’. Uomini capaci di pensare molto e di nutrire sentimenti profondi ma che conservano una certa ruvidezza da lavoratore”.

Il suo poeta sulla moto Lucinda Williams lo aveva conosciuto alla fine degli anni settanta a Fayetteville, attraverso suo padre che insegnava letteratura all’università dell’Arkansas. Frank Stanford era un poeta, ma per vivere lavorava anche in campagna come agrimensore. Un agrario che scriveva poesie: “Il mio tipo di uomo”. Stanford era un quasi trentenne affascinante dagli occhi scuri e dalle braccia forti, era già stato sposato in gioventù e, quando Lucinda Williams lo conobbe, si barcamenava tra la seconda moglie, una giovane pittrice affascinante, e un’ancora più giovane poeta che era la sua amante.

A Lucinda, che non aveva voglia d’inserirsi in una geometria amorosa già abbastanza complicata, non restava che un profondo, devastante innamoramento platonico. E non avendo 17 anni ma 26, il suo amore non fisico ma ugualmente bruciante per Frank Stanford l’ha segnata e, a suo dire, l’ha trasformata nella cantautrice “erotica” che è ancora oggi che ha settant’anni.

Stanford aveva gravi problemi psichici e, quando, al ritorno di uno dei suoi tanti giri in campagna, le due donne della sua vita lo affrontano e gli chiedono di scegliere una di loro, lui prende una pistola dal suo ufficio, si chiude in camera da letto e si spara un colpo nel petto. Lucinda Williams viene a sapere della morte del suo “Kerouac reincarnato in un ragazzo di campagna” attraverso il padre, l’uomo che era stato chiamato dalla vedova per aiutarla a pulire il sangue. “Una vera tragedia shakespeariana” che, aggiunge Williams, prende dei toni quasi da commedia surreale quando le due vedove, la moglie pittrice e l’amante poeta, decidono di andare a vivere insieme.

Lucinda è la terza vedova di Frank Stanford, quella che non aveva mai fatto l’amore con lui e che ne fa per sempre la sua musa. Stanford infatti si era sparato proprio nei giorni in cui Williams aveva firmato il suo primo contratto discografico: la sua figura di poeta così radicata nel profondo sud e lo struggimento di un amore mai consumato hanno dato, negli anni, materia e sostanza alle sue canzoni. E hanno reso Lucinda Williams un’artista inafferrabile e indefinibile: troppo country per essere considerata rock e troppo rock per essere country, autrice di canzoni pervase da una capacità di osservazione del reale talmente fulminante da sembrare un’allucinazione e da un senso del desiderio erotico e amoroso che nessun altro musicista, uomo o donna, è riuscito a descrivere nello stesso modo.

Lucinda Williams canta Essence in concerto nel 2002

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Il fantasma di Frank Stanford si aggira in tutta la produzione di Lucinda Williams, ma è particolarmente presente in Essence, la canzone che dà il titolo al suo sesto album, uscito nel 2001 quasi come antidoto al successo del suo disco precedente, Car wheels on a gravel road.

Essence è quasi una preghiera erotica rivolta a un amante assente, invisibile; è una canzone sull’attesa e sul desiderio mai saziato. “Sono qui che aspetto di averne ancora / Sto aspettando alla tua porta / Sto aspettando seduta sui tuoi gradini / Sto aspettando chiusa in macchina / Sto aspettando in questo bar / Sto aspettando la tua essenza”. E dietro a questa parola, essenza, che richiama sia un profumo (l’odore di un amante che non c’è più che rimane attaccato ai vestiti e agli oggetti) sia un’idea più profonda, quasi platonica, di avere accanto un compagno, c’è tutto l’universo poetico di Lucinda Williams.

Essence è un album scarno, lo scheletro di un disco folk-rock pieno di sfumature quasi impressioniste di blues del Delta e di gospel. Se con Car wheels on a gravel road Lucinda Williams ha avuto un inatteso successo rock (è lì che sono cominciati per lei i paragoni con Bruce Springsteen), con Essence sembra tornare alle radici della sua musica, alla propria più intima essenza appunto. Non è un album emotivamente facile, ma la scrittura è talmente felice che le canzoni scorrono una dietro l’altra come le pagine di un libro.

Lonely girls (ragazze sole) fa quasi da ouverture. Williams descrive, apparentemente da osservatrice esterna, l’aspetto delle ragazze sole: coperte pesanti che le riparano dal freddo quando sono in casa e tagli di capelli graziosi e lustrini troppo luccicanti quando escono. Solo alla fine l’autrice si rivela: “E io la so lunga sulle ragazze sole”, canta nell’ultimo verso come ad ammettere a malincuore di essere anche lei una di loro.

In Steal your love, un pezzo più ruvido e rock, il battito del cuore accelera e la “ragazza sola” della canzone precedente svela la sua anima fiammeggiante, fatta di desiderio e di aggressività sessuale: voglio prendermi il tuo amore, voglio che tu mi stringa e mi chiami tesoro, dammi la tua mano forte e vieni via con me, fatti baciare e fatti liberare.

Con I envy the wind si torna nel country con una delle similitudini più classiche della poesia arcadica: l’invidia della poeta per il vento (lo zefiretto di cui si leggeva nelle poesie del settecento) che accarezza il viso della persona amata lontana. Il venticello del sud di Lucinda Williams però diventa presto tempesta e pioggia che “cade sul tuo viso, che ti bagna le ciglia, che t’inumidisce la pelle, che ti tocca la lingua e t’infradicia la camicia… invidio la pioggia”. La critica musicale Ann Powers dice, senza mezzi termini, che I envy the wind è un pezzo che Billie Holiday o Elvis Presley canterebbero volentieri se fossero vivi.

Out of touch è forse la canzone più classicamente pop-rock dell’album e avrebbe potuto essere una hit per un John Cougar Mellencamp. Ancora una volta Williams, quando esce da se stessa e dai suoi fantasmi, è un’acutissima osservatrice del reale. In pochi versi descrive l’incontro casuale di due persone che un tempo si amavano: i gesti goffi, le battute che non fanno ridere, i sorrisi imbarazzati, le mani in tasca e la conversazione casuale che però pesa un macigno: “Ti chiedo di un vecchio amico che conoscevamo e tu mi dici che hai saputo che cinque anni fa si è ammazzato”. Ancora un suicidio, ancora un fantasma.

Blue ha una melodia meravigliosa ed è un inno alla malinconia come rifugio. Se Amy Winehouse voleva ritirarsi “back to black”, Lucinda vuole dissolversi “back to blue” che per lei è il colore del blues del Delta ma anche quello dei riflessi delle piume nere dei corvi, il colore della notte che “mi dà da mangiare quando ho fame, che mi disseta quando ho bisogno di acqua, che mi ama quando sono sola e che pensa a me come prima cosa”.

Get right with god, fare pace con dio, è uno dei pezzi più disturbanti e ruvidi dell’album. È un ibrido tra rock e gospel in cui Lucinda Williams si dice pronta a qualunque supplizio sulla terra pur di ritrovare dio. Get right with god è una delle performance vocali più straordinarie di Williams perché è sempre in bilico tra ironia graffiante e un delirante, autentico senso del sacro.

Essence spiazzò molti quando uscì: ci fu chi lo liquidò come “una raccolta di canzoni dolci e tristi cantate da una ragazza sola” e chi lo ha visto come un suicidio commerciale dopo il successo di Car wheels on a gravel road. Eppure con questo album troppo elettrico per il folk e troppo erotico e confessionale per le radio statunitensi, Lucinda Williams ha saputo, quasi a metà carriera, reinventarsi senza tradire le proprie radici. Di più, Essence, nella sua programmatica semplicità e asciuttezza, dimostra la piena maturità di un’artista capace di rendere invisibile, quasi immateriale, l’aspetto tecnico della sua arte per arrivare dritta al suo cuore, all’essenza.

Lucinda Williams
Essence
Lost Highway, 2001

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