10 ottobre 2016 15:35

Dal 1992 il conto è presto fatto: cinque primi ministri britannici, quattro presidenti della repubblica francesi, addirittura tre cancellieri tedeschi ma, in Italia, quattordici presidenti del consiglio. Quattordici! Nemmeno la Grecia ha conosciuto un’instabilità maggiore (ad Atene “solo” undici governi in 25 anni).

Basta uno sguardo fuori dei confini per vedere che l’Italia è da record, non ci sono paragoni. Se non con la quarta repubblica francese, molto simile a quella italiana, che fu approvata nel 1946 e che produsse 24 governi in 12 anni, uno ogni sei mesi. Finché, nel 1958, arrivò al potere il generale De Gaulle che cambiò radicalmente le istituzioni attraverso un potenziamento dell’esecutivo, completato quattro anni dopo con l’introduzione dell’elezione diretta, a suffragio universale, del capo dello stato.

All’epoca ci furono durissime critiche alla riforma. Quasi tutta l’opposizione gridò alla deriva autoritaria e François Mitterrand, già all’epoca leader della sinistra francese, pubblicò un libro dal titolo molto chiaro: “Il colpo di stato permanente”. Però, una volta arrivato al potere, nel 1981, si adeguò così bene alle istituzioni gaulliste che rimase all’Eliseo per quattordici anni. Altro che deriva autoritaria o oligarchica: la quinta repubblica non ha impedito l’alternanza destra-sinistra al potere.

Non è un insulto ai suoi promotori dire che la riforma Boschi-Renzi non è, nella forma, paragonabile alla quinta repubblica francese. Tuttavia, benché scritta male, ha il grande merito di mettere fine al bicameralismo perfetto e di conseguenza di rafforzare l’esecutivo. Il vero nodo del testo è in effetti il ridimensionamento del senato e la competenza di concedere la fiducia al governo riservata solo alla camera dei deputati. Se il 4 dicembre sarà approvata, la riforma eviterà il ripetersi di situazioni come quelle del 1994 e del 2006, quando le coalizioni maggioritarie alla camera vedevano il loro destino sospeso al voto di uno o due senatori, addirittura a volte di un senatore a vita. Oppure la situazione ingestibile successiva al 2013, quando nessuna forza aveva una maggioranza chiara al senato.

È un’illusione pensare che un referendum di questa portata non si trasformi in un voto sul governo

La riforma proposta non è una garanzia assoluta di stabilità. Quella dipende anche in parte dalla legge elettorale. Ma, de facto, le istituzioni strutturano la vita politica di un paese e il testo Boschi-Renzi dovrebbe permettere all’Italia di fare un grande passo avanti verso la stabilità politica al pari dei suoi partner europei.

Se non fosse personalizzata intorno alla figura di Matteo Renzi, sicuramente il sì sarebbe favorito (i sondaggi d’opinione sul contenuto del testo sembrano confermarlo). Ma è un’illusione pensare che un referendum di questa portata non si trasformi in un voto sul governo in carica. Nel 1968 con De Gaulle (sulla riforma del senato) e nel 2005 (sul trattato costituzionale europeo) con Jacques Chirac, il no dei francesi è stato anche un segnale contro i presidenti in carica.

Renzi ha commesso un errore politico. Come De Gaulle nel 1968, ha detto che in caso di sconfitta, lascerà la politica. Per depontenziare la coalizione degli oppositori intorno al no avrebbe dovuto scegliere una soluzione opposta: annunciare durante la campagna referendaria le sue dimissioni e la convocazione di elezioni anticipate in caso di vittoria del sì. Con regole nuove, nuova ridistribuzione del gioco politico. Nel 1958, subito dopo l’approvazione per referendum della nuova costituzione, De Gaulle sciolse la camera dei deputati e così, meno di due mesi dopo l’avvento della quinta repubblica, ridiede la parola ai cittadini.

In Italia questa via delle elezioni anticipate in caso di una vittoria del sì sarebbe ancora più logica, dal momento che la nascita del governo Renzi (come prima nel caso di quello di Letta) aveva avuto, nel 2014, il mandato prioritario da parte del presidente Giorgio Napolitano di riformare le istituzioni. Una volta raggiunto l’obiettivo, un ritorno alle urne sarebbe dunque nella natura delle cose.

Ma con quale legge elettorale? Se la riforma Boschi-Renzi va senz’altro nella giusta direzione per uno snellimento delle procedure e una maggiore stabilità politica, la nuova legge elettorale, l’Italicum, pone seri problemi, come sostengono (in buona e cattiva fede) gli oppositori del presidente del consiglio. Così com’è scritta (con il 55 per cento dei seggi attribuiti alla lista che ottiene più del 40 per cento dei voti al primo turno o il 50 per cento dopo un eventuale ballotaggio), la legge rischia di portare al potere una formazione minoritaria nel paese, senza veri contropoteri istituzionali.

Basta immaginare cosa sarebbe successo in Italia se nel 2001 Silvio Berlusconi avesse vinto le elezioni con la nuova costituzione Boschi-Renzi abbinata all’Italicum. È molto delicato fare ipotesi, ma si può immaginare che nel 2001 Forza Italia, senza nessun alleato, avrebbe avuto (con circa il 30 per cento dei voti al primo turno, e immaginando una sua vittoria al secondo turno) il 55 per cento dei seggi alla camera, con dei deputati scelti da Berlusconi e in grado di esercitare una forte influenza sul Consiglio superiore della magistratura, sulla composizione della corte costituzionale e, nel caso, in grado di orientare fortemente la scelta sull’elezione del presidente della repubblica.

Un esecutivo forte sulla carta ma non pienamente legittimato dai cittadini rischia di rivelarsi in realtà molto debole

È difficile fare fantapolitica, però si può immaginare che una situazione del genere avrebbe provocato grande tensioni, con proteste di piazza e infine una paralisi del paese (come insegnano le manifestazioni contro la modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 2002). Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di luoghi istituzionali in grado di favorire mediazioni.

Paradossalmente, si può quindi sostenere che l’Italicum indebolisce l’obiettivo della riforma costituzionale. Perché un esecutivo forte sulla carta, ma non pienamente legittimato dai cittadini, rischia di rivelarsi in realtà molto debole. Infatti la futura legge elettorale non garantisce questa legittimità. In Francia, François Hollande ha ottenuto solo il 28,6 per cento dei voti al primo turno delle presidenziali del 2012 e oggi la sua popolarità è bassissima nei sondaggi. Ma nessuno ne contesta la legittimità, nessuno gli contesta il diritto di concludere il suo mandato. Perché il presidente della repubblica è stato scelto direttamente dai cittadini al secondo turno, sulla scheda c’era il suo nome. Inoltre in Francia la scelta del presidente è distinta dalla scelta dei parlamentari, che a loro volta sono eletti dal popolo con un sistema maggioritario a doppio turno (senza capolista bloccati, come nell’Italicum). Il potere esecutivo francese può dunque essere controbilanciato dal potere legislativo, cosa improbabile con l’Italicum.

Intervista a Eric Jozsef e Michael Braun


È tutta una questione di equilibri. Dopo settant’anni di una costituzione che, per comprensibili motivi storici, ha privilegiato i poteri del parlamento, il potenziamento dei poteri del capo del governo è una buona notizia. Ma a volere forzare il riequilibrio si rischia di ottenere il risultato contrario. Soprattutto perché un esecutivo forte sulla carta creerà anche molte aspettative tra i cittadini. Aspettative per forza eccessive, perché oggi gran parte degli strumenti della politica (monetaria, di bilancio, commerciale) non è più solo nelle mani dei governi nazionali e perché le sfide (migratorie, ambientali, di controllo della finanza internazionale) superano il quadro nazionale.

Matteo Renzi saprà il 4 dicembre se il suo nome resterà legato alla più importante riforma della costituzione dal dopoguerra a oggi. E poi? Per un giovane politico, la vera scommessa non è solo cambiare la costituzione italiana ma riformare urgentemente le istituzioni e la governance europee.

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