20 novembre 2015 10:15

Gli attentati del 13 novembre sollevano due interrogativi fondamentali: chi sono i mandanti e chi sono gli esecutori. Il mandante è il cosiddetto gruppo Stato islamico (Is) che diffonde terrore, massacra musulmani e non musulmani, distrugge monumenti che hanno alle spalle secoli di storia e presenta un miscuglio di totalitarismo oscurantista e un islam mitologico mai esistito nella storia di questa religione, neppure in seno alle sette più estremiste che la religione di Allah abbia conosciuto.

Al Qaeda è quasi insignificante al confronto del gruppo Stato islamico, che invece ha molti assi nella manica

La minaccia e il pericolo posti da questa nuova entità sono stati costantemente sottovalutati prima degli attentati mortali del 13 novembre. Una constatazione è d’obbligo: occorre distruggerla sul suolo siriano e iracheno prima che riesca a contaminare in modo permanente altre parti del mondo, dalla Libia all’Afghanistan all’Asia centrale.

Al Qaeda è quasi insignificante al confronto dell’Is, che invece ha molti assi nella manica: una base territoriale, un tesoro di guerra che ammonta a diversi miliardi di dollari, una forza di circa 25mila giovani volontari provenienti da tutto il mondo e, soprattutto, una stabilità, un’amministrazione e un apparato di propaganda che Al Qaeda non ha mai avuto.

Finora gli statunitensi, colpiti dalla sindrome dell’insuccesso a causa degli interventi in Afghanistan e in Iraq, hanno respinto qualsiasi ipotesi di mobilitazione di truppe di terra, e l’Europa, rassegnata a uno strutturale ruolo secondario, non ha mostrato una politica unitaria di fronte a questo gruppo di farabutti. Occorrerebbe superare questo sentimento di impotenza collettiva e prendere delle misure decise per annientarlo sul suo territorio.

Un esercito di riserva

Anche il secondo interrogativo è però fondamentale: gli attentati sono stati compiuti da europei, belgi e francesi. Vengono dalle banlieues in Francia e da luoghi simili in Belgio. Sono animati da un odio inestinguibile contro questa Europa che li ha visti nascere e li ha educati, più male che bene. In un senso perverso, sono più europei degli europei stessi: realizzano l’unione europea dei jihadisti mentre l’Europa fatica a dotarsi di una polizia e di un servizio di intelligence unificati che possano, al di là delle frontiere di ogni stato, accrescere la loro efficacia nella lotta contro questo terrorismo.

In Europa esiste un esercito di riserva di jihadisti formato dai giovani declassati delle città o dei quartieri popolari.

Nel breve periodo si potrà lottare contro questo esercito di riserva con arresti e detenzioni, ma nel lungo periodo bisognerà neutralizzarlo con misure socio-economiche, far uscire dal ghetto i giovani e inventare una nuova modalità di urbanizzazione e di socializzazione. Questi giovani si identificano nel jihadismo più per ragioni identitarie e sociali che religiose, e l’islam diventa per loro il simbolo di una resistenza perché nessuna ideologia è più in grado di offrirgli un supporto emotivo e la sicurezza del sacro (dopo l’esaurimento delle ideologie di estrema sinistra).

Il modello dominante continua a funzionare, e dispone di un indiscutibile strumento antropologico: l’odio per la società

Dal 2013, le partenze per il jihad in Siria dalla Francia (il numero più alto di jihadisti in Europa) e dal Belgio (la proporzione più alta di jihadisti in Europa) formano la griglia di fondo del malessere europeo.

In mezzo a quei volontari ci sono persone delle classi medie, il cui numero è aumentato nel corso del tempo. Tuttavia, il modello dominante, quello offerto dai giovani delle banlieues, continua a funzionare, e dispone di un indiscutibile strumento antropologico: l’odio per la società, sacralizzato nella formula onnicomprensiva del jihad, stravolto e privo ormai di qualsiasi contenuto religioso in senso stretto. Questo odio si esprime in nuove forme: ha come obiettivo l’Europa intera, non conosce più alcuna frontiera nazionale, prende di mira tutti gli europei (compresi i musulmani) in una volontà di punire che è la rivincita dei giovani declassati, convinti che la società vorrebbe disumanizzarli confinandoli nei ghetti e negandogli qualsiasi dignità di cittadini.

Questa vittimizzazione malsana, seppure giustificata in parte dall’esistenza del razzismo e dell’islamofobia, mantiene il suo carattere mitizzato e manicheo perché nega le possibilità offerte dalla democrazia ai suoi cittadini, anche solo con lo strumento del voto.

Il jihadismo contiene due invenzioni di portata straordinaria letteralmente incarnate da questi giovani: il neomartire, il morto consacrato nel delirio della soggettivazione, e la neoumma, una comunità che non è mai esistita storicamente e che i giovani europei disorientati cercano di realizzare come rimedio al loro malessere identitario.

L’entusiasmo di morire e di dare la morte, disumanizzando totalmente coloro contro i quali si scatena il proprio odio, è un sentimento che può essere fatto risalire alla rivoluzione iraniana del 1979 e che si è diffuso nel mondo sunnita, nutrendosi delle umiliazioni e della volontà di rivincita contro l’occidente malvagio.

La Francia combina diversi fattori che aggravano la sua posizione agli occhi dei jihadisti

La cosa straordinaria è che questa passione mortifera contiene al tempo stesso l’entusiasmo per questa neoumma, insieme macabra e festosa, che diventa il quadro in cui il malessere dei giovani si radicalizza. Sono dei giovani che il 13 novembre hanno ucciso (soprattutto) altri giovani e che si ritengono dotati di una legittimità divina.

La Francia combina diversi fattori che aggravano la sua posizione agli occhi dei jihadisti: per loro è la “terra dello stupro”, la terra dell’ideologia antireligiosa secondo numerosi musulmani radicalizzati, la terra dell’ambizione politica (la Germania, che non ha una politica attiva in Medio Oriente, per il momento viene lasciata in pace). Ospita inoltre la comunità musulmana più numerosa d’Europa, che per la grande maggioranza non ha nulla a che vedere con l’estremismo.

Restano i servizi di intelligence e di sicurezza, e la polizia. In ogni paese sono armati per lottare contro qualche centinaio, ma non migliaia, di terroristi che possono circolare liberamente grazie alla soppressione delle frontiere. Le forze di sicurezza sono sopraffatte e sommerse dalla diffusione del nuovo terrorismo.

Sarebbe ora che l’Europa si attrezzasse con uno strumento potente e unificato, il nucleo di un sistema federale di lotta contro il terrorismo, se vuole salvare la vita dei futuri cittadini europei.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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