20 novembre 2020 11:40

“Stiamo commettendo un suicidio di massa”, è con queste parole che la giornalista scientifica Laurie Garrett ha commentato l’annuncio della casa farmaceutica Pfizer del vaccino per il coronavirus. Nonostante fosse certamente una buona notizia, per Garrett non era possibile dimenticare che i contagi negli Stati Uniti avevano ricominciato a crescere, portandone il numero a più di undici milioni, con circa 250mila decessi. Per lei era impossibile dimenticare la sofferenza di questi mesi e come, negli stessi giorni dell’annuncio del vaccino, la corte suprema stesse esaminando le argomentazioni di chi intendeva smantellare l’Affordable care act, la copertura sanitaria introdotta da Obama nel 2010, proponendo di tagliarla nuovamente a circa 21,1 milioni di adulti a basso reddito, nel cuore di una pandemia.

Da quando è alla Casa Bianca, Trump ha criticato varie volte la legge, ma i tentativi di abrogarla sono falliti, così come era accaduto durante i due precedenti ricorsi alla corte suprema, nel 2012 e nel 2015. Per certi versi, questo ulteriore tentativo di abrogazione è un’istantanea perfetta dell’amministrazione Trump, tutta incentrata nella figura del presidente e sulla sua spettacolare decisione di non accettare l’esito delle elezioni, mentre il resto della popolazione continua ad ammalarsi e a morire.

Il modo surreale con cui Trump ha rifiutato di riconoscere il risultato delle elezioni ci catapulta nuovamente in una puntata di The apprentice, la serie televisiva che lo ha visto protagonista negli anni duemila, trattando le elezioni quasi fossero l’ultima puntata del suo show. Questo elemento surreale è un tratto caratteristico dell’amministrazione Trump, che è sempre riuscita a presentare la violenza come una forma di spettacolo, le sue dichiarazioni più cruente come una performance, e il suo personale rebranding del fascismo in una strategia comunicativa per catturare l’attenzione degli spettatori. La cortina di fumo che fa da sfondo alle sue apparizioni, da quelle distratte nel campo da golf a quelle nella sua torre dorata, fanno da contraltare alla vera politica di Trump: quella politica della morte che il filosofo camerunese Achille Mbembechiama “necropolitica”, fatta di massacri e di morte che ha caratterizzato la sua amministrazione.

Negli ultimi mesi, lo spettacolo della morte è diventato l’epitome dell’amministrazione Trump, non solo a causa di quel suicidio di massa di cui parlava Garrett e della lucida inerzia con cui Trump ha affrontato la crisi sanitaria, persuaso che il libero mercato avrebbe salvato la società, come suggerito dai suoi consiglieri economici Arthur Laffer e Stephen Moore. Ma perché il modo sproporzionato con cui il virus si è diffuso nei territori dei nativi americani, nei ghetti neri, nei quartieri poveri e tra le persone più fragili, echeggia quella cultura di darwinismo sociale che da sempre fa da sfondo al sistema economico statunitense. La disumanizzazione è sempre una missione monumentale, ha scritto Isabel Wilkerson nel suo ultimo libro sul sistema delle caste negli Stati Uniti, perché prova a negare a una parte dell’umanità il diritto alla cura e all’empatia. Bisogna riconoscere, tuttavia, che l’intero programma politico di Trump è stato molto efficace nell’aumentare la vulnerabilità delle fasce della popolazione più fragili e nel privarle altresì dell’empatia, aumentando la propaganda contro i messicani, “spacciatori, criminali e violentatori”; contro gli afroamericani, “responsabili della maggioranza degli omicidi di uomini bianchi”, contro i disabili, da lui stesso imitati e beffeggiati, che Trump ha eletto al ruolo di capro espiatorio.

Quattro crisi
Per certi versi, lo spettacolo della morte è stato il perno della legittimità di Trump: è stato la ragione della sua vittoria nelle elezioni del 2016, quando prometteva di riportare l’America a dominare il mondo al suon di “Make America great again”. Tuttavia, lo spettacolo della morte è stato anche il limite della sua legittimità, la dimostrazione che le regole che governano la società non sono più benefiche, ma dannose per la sua sopravvivenza, fino a diventare il catalizzatore dell’insurrezione nel momento in cui il mondo ha assistito impotente alla violenza inflitta a un uomo che chiedeva solo di respirare.

È in questo confine tra lo spettacolo e la violenza che negli ultimi mesi si sono polarizzati gli Stati “divisi” d’America, come qualcuno li ha chiamati, portando metà della popolazione a votare per Trump e un’altra metà a sentirsi minacciata dalla sua presidenza. Ed è a questa polarizzazione, a questo conflitto sociale quotidiano, che abbiamo assistito, quando le strade degli Stati Uniti sono diventate il teatro di uno scontro tra la violenza organizzata delle milizie bianche e la resistenza degli attivisti antifascisti e antirazzisti che tentavano di difendere i propri quartieri. Per molti di loro, la sconfitta elettorale di Trump era una questione di vita o di morte. Come ha detto l’avvocato e attivista della comunità dei nativi americani Chase Iron Eyes di Pine Ridge nel South Dakota, una delle comunità più colpite dall’epidemia ma anche dai “piccoli massacri” quotidiani causati dalla disoccupazione e dall’alcolismo, “un narcisista patologico e bugiardo è il capo dello stato e sta brutalizzando i nativi. (…) Per noi, questa è una questione di vita o di morte”.

Per certi versi quello che stiamo osservando negli Stati Uniti è il punto di rottura di almeno quattro crisi: sanitaria, economica, politica ed epistemica, come la chiama nel suo ultimo libro Luca Celada, tutta incentrata sul tentativo di confondere ciò che è vero e ciò che è falso. È dalla guerra tra il falso e il vero, più che dal risultato elettorale, che dipende il futuro della nostra società, anche da questa parte dell’oceano.

Una strategia antica
Dobbiamo dirci che la strategia di Trump di aumentare le diseguaglianze sociali e di attribuirle a un capro espiatorio, dividendo la solidarietà sociale lungo la linea del colore, ha funzionato e che non l’ha inventata Trump. Ne troviamo le origini nella politica di Ronald Reagan, che per primo ha colpito duramente le lotte sindacali e il welfare aizzando contemporaneamente la classe lavoratrice bianca contro il sottoproletariato nero e contro le donne, quelle welfare queen che mettono al mondo troppi figli e guidano le Cadillac mentre vivono di sussidi di disoccupazione a spese degli altri.

Come Reagan, Trump ha cominciato con la riforma fiscale, tagliando le tasse per i ricchi di circa 1,5 trilioni in dieci anni, e ammettendo che lui stesso avrebbe risparmiato circa undici milioni da una dichiarazione dei redditi, che altrimenti, come riportava il New York Times riprendendo le sue parole, gli sarebbe costata “una fortuna”. Nel frattempo ha provato a smantellare quel poco di stato sociale che c’era, a partire dall’Obama care, criticato più volte come un progetto pericoloso che rischiava di portare gli Stati Uniti al socialismo. Il pericolo del socialismo e il pericolo dei migranti, che si sarebbero riversati nel paese per ricevere assistenza sanitaria gratuita, affollando gli ospedali e impedendo ai contribuenti americani di curarsi, è stato il perno di una politica portata avanti con sistematica crudeltà, nel tentativo di salvare i ricchi dai poveri e dalle minoranze, spostando gradualmente il paese verso una specie di stato di polizia, e chiamando tutto questo libertà.

Il gioco tra realtà e mistificazione anche qui è chiaro: sebbene Trump abbia presentato la riforma fiscale come una politica che avrebbe giovato a tutti, la verità è che i ricchi sono diventati più ricchi, mentre i milioni di famiglie che lottano per sopravvivere al fondo della scala sociale hanno visto tagliare quei programmi di assistenza che gli consentivano di pagare l’affitto, mettere il cibo in tavola e ottenere l’assistenza sanitaria.

A distanza di quarant’anni da Reagan, non possiamo sottovalutare quanto queste favole tutte protese a legittimare una diseguaglianza che da allora non ha fatto che crescere, abbiano assunto vita propria, trasformando la ricchezza di persone come Trump in una questione di “buoni geni” e la povertà di tutti gli altri in una colpa personale. Non è un caso che già nel famoso The bell curve Charles Murray e Richard Herrnstein raccomandassero di eliminare le politiche di welfare perché, secondo loro, incoraggiano le donne nere ad avere figli, aiutando la parte sbagliata della popolazione, quei ceti poveri che hanno anche un basso quoziente intellettivo e che, secondo loro, è meglio che non si riproducano.

Violenza sdoganata
La differenza fra l’epoca di Reagan e quella di Trump è che le fantasie eugenetiche con cui la destra prova a spiegare le diseguaglianze sociali sono state in questi anni sdoganate, accelerando la nostalgia bianca verso quell’“ordine naturale” fondato sulla supremazia che ha legittimato la violenza e la disumanizzazione contro i migranti e le minoranze da entrambi i lati dell’oceano.

Dal Brasile di Bolsonaro all’India di Modi, dall’Ungheria di Orbán alla Polonia di Duda, dall’Italia di Salvini al Regno Unito di Johnson, dalla Turchia di Erdoğan a Israele di Netanyahu, dalla Serbia di Vučić alla Slovenia di Janša, politiche xenofobe e razziste, incentrate su pericoli immaginari come l’estinzione bianca e l’invasione, sono riuscite a dividere la società lungo la linea del colore, a partire da una rappresentazione del mondo surreale, tutta incentrata sulla continua affermazione del falso e la confutazione del vero.

C’è da dire che quegli incubi dell’inconscio imperiale, come l’ossessione per l’invasione o la colonizzazione inversa, erano già al centro del declino nell’epoca vittoriana, quando Conrad in Cuore di tenebra raccontava il timore che l’elemento ribelle che cresceva tra gli oppressi e tra gli schiavi prendesse il sopravvento sull’impero, consentendo a forze ataviche di sabotarne la gloria e l’ordine sociale. Non è un caso che queste stesse narrazioni siano state il perno delle politiche contro l’immigrazione portate avanti in vari paesi, o che la stessa presidenza Obama sia stata percepita da molti come una presidenza illegittima, espressione dello sconvolgimento di quell’ordine naturale fondato sulla supremazia bianca che Trump doveva vendicare. Come scrive lo stesso Obama nel suo libro Una terra promessa:

Era come se la mia stessa presenza alla Casa Bianca avesse scatenato un profondo panico, la sensazione che l’ordine naturale fosse stato sconvolto. Che è esattamente ciò che Donald Trump ha capito quando ha iniziato a diffondere le affermazioni secondo cui non ero nato negli Stati Uniti e quindi ero un presidente illegittimo. Per milioni di americani spaventati da un nero alla Casa Bianca, Trump era un elisir per la loro ansia razziale.

Per quanto dispiaccia ammetterlo, la mistica trumpiana è riuscita a generare consenso anche nei confronti delle sue politiche più violente, creando un mondo sicuro per i ricchi e per i dittatori, e pericoloso per tutti gli altri. Il nazionalismo bianco, l’opposizione all’immigrazione, l’ostilità all’ambientalismo, ai diritti delle donne e della comunità lgbtq+, l’euroscetticismo e la guerra all’assistenza pubblica sono il cuore politico di quell’internazionale populista che dall’elezione di Trump ha tinto di nero il mondo.

Da questo punto di vista, è importante osservare come le elezioni negli Stati Uniti abbiano lasciato la destra globale “orfana” del suo perno. Come ha detto il direttore del Giornale Alessandro Sallusti nello speciale di Rai3 Il presidente Joe, le destre europee hanno perso la persona che gli faceva da scudo. Ora “i nazionalismi europei dovranno confrontarsi con la realtà, non più con un paravento. E io temo per loro, non per me, che molte di quelle posizioni si sciolgano come neve al sole perché erano onestamente insostenibili se non dietro un ombrello globalista”.

In questi giorni, tutto il mondo discute sulle possibili conseguenze della decisione di Trump di ignorare il risultato elettorale. In un articolo sul New Yorker precedente alle elezioni, intitolato “Why Trump can’t afford to lose” (”Perché Trump non può permettersi di perdere”) Jane Mayer prevedeva uno scenario come questo:

Trump è sopravvissuto a un impeachment, due divorzi, sei bancarotte, ventisei accuse di molestia sessuale e circa quattromila cause legali. Poche persone hanno evitato le conseguenze in modo più astuto. Ma questa fortuna potrebbe finire, anche brutalmente, se perde contro Joe Biden.

Quest’analisi risuona come una profezia a dieci giorni dalle elezioni, lasciando pensare che effettivamente Trump non possa permettersi di perdere, perché finirebbe direttamente “nell’ostello dei poveri e in carcere”, come ha detto il docente di Yale Timothy Snyder nell’intervista alla Mayer. Ma lo stesso Snyder concorda che non si può sottovalutare quanto sta facendo, perché i colpi di stato nascono precisamente così, con un rovesciamento dall’interno, per il rifiuto di accettare l’esito di una tornata elettorale.

Per certi versi, è stata proprio la pandemia a permettere la sconfitta di Trump, non tanto perché l’ha gestita malissimo, né solo per la sofferenza che ha generato, ma perché l’alleanza democratica dei movimenti antifascisti e antirazzisti ha rotto il velo della mistificazione, rivelando la violenza che vive nelle sue parole. È proprio la capacità di disvelamento della crisi che stiamo attraversando che spaventa i tiranni: la possibilità che, svelate le falsità su cui si fonda la loro politica, la manipolazione su cui si fonda il loro consenso possa tradursi in una shock democracy, uno shock democratico che li lasci sconcertati e sconfitti, com’è capitato a Trump.

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