19 luglio 2021 09:51

“C’è stata una tale violenza, un tale sfruttamento, una tale oppressione per così a lungo. Queste persone ci sono cresciute dentro, e hanno perso la paura di morire. Non hanno davvero paura di morire. È una cosa molto particolare. Da psichiatra, Frantz Fanon diceva che quando in un posto l’uguaglianza delle vite è negata (quell’uguaglianza elementare che ci rende umani) ne scaturisce una violenza in extremis. Ma può anche nascere una condizione in cui non si ha più paura della morte. I subalterni parlano attraverso l’atto del morire”.

Così la critica letteraria e teorica del postcolonialismo Gayatri Spivak commentava, in una recente intervista, il movimento di opposizione alla giunta militare in Birmania. Ma la sua avrebbe potuto essere una risposta alle parole di Ahmed, una delle oltre 450 persone che dal 23 maggio portano avanti uno sciopero della fame a Bruxelles per chiedere la regolarizzazione dei sans-papiers, persone senza permesso di soggiorno. Il 7 luglio, al quotidiano belga L’Avenir, Ahmed spiegava: “Siamo come dei cadaveri, delle carcasse che camminano. Cosa volete che facciamo? Tanto siamo già morti. Senza documenti non puoi fare niente. Piuttosto che morire lentamente, mi chiedo se non dovrei andarmi a comprare della benzina e darmi fuoco. E qui non sono l’unico a pensarla così”.

“Qui” è la Vrije universiteit Brussel (Vub), l’università neerlandofona di Bruxelles, uno dei tre luoghi occupati dall’Union pour la régularisation des sans-papiers tra fine gennaio e i primi di febbraio 2021. Gli altri due spazi sono l’Université libre de Bruxelles e la chiesa di Saint-Jean-Baptiste au Béguinage, nel centro storico della capitale, che negli ultimi ventitré anni – come ricordava il parroco Daniel Alliet – ha accolto sette occupazioni e quattro scioperi della fame di sans-papiers. Nel maggio del 2009, al culmine di anni di lotte per ottenere una nuova campagna di regolarizzazione dopo quella del 1999, Alliet aveva annunciato alla stampa la fine di uno sciopero della fame nella chiesa durato settantanove giorni. “La maggior parte dei sans-papiers ha deciso di porre un termine a questa azione”, aveva dichiarato. “Non vogliono che i loro figli diventino orfani”.

Qualche mese dopo il governo aveva finito per cedere, avviando un’operazione che tuttavia aveva permesso solo a una piccola parte delle persone in soggiorno irregolare nel paese di ottenere dei documenti. Soprattutto, come tutte le misure eccezionali, non aveva offerto una soluzione permanente a chi voleva continuare a vivere qui, lavorando e crescendo i propri figli senza dover restare nell’ombra, senza essere sfruttati dai datori di lavoro, senza temere un arresto e un’espulsione. Una soluzione basata su criteri di regolarizzazione chiari e giusti, come per esempio avere un lavoro, risiedere in Belgio da un certo numero di anni o essere bloccati in una procedura di asilo da troppo tempo.

Appello caduto nel vuoto
Dal 2009 intorno a questa rivendicazione sono nati diversi movimenti (tra cui il Collectif sans-papiers de Belgique nel 2011 e Voix des sans-papiers nel 2014), molti dei quali hanno dato vita a una rete – la Coordination des sans-papiers de Belgique – nella speranza di rafforzare il loro peso politico. Sono passati più di dieci anni e, nonostante decine di iniziative, occupazioni, marce, manifestazioni, petizioni, nulla è cambiato. Nel novembre del 2020 Sebastian Franco, membro della Coalizione internazionale sans-papiers e migranti (Cispm), riconosceva che la Coordination des sans-papiers de Belgique aveva svolto “un lavoro molto importante, segnando passi avanti sul piano delle pressioni, dei rapporti di forza con le autorità, dei contatti con le associazioni”. Ma di fronte allo “stallo istituzionale”, al rifiuto categorico di aprire una discussione sulla necessità di riformare le procedure di regolarizzazione, “nel movimento si è cominciata ad avvertire una certa stanchezza”.

Inevitabilmente la pandemia ha reso ancora più precaria la situazione dei sans-papiers (e non solo in Belgio, come dimostrano le analisi pubblicate dall’organizzazione Picum). In questo contesto, c’è chi ha sperato che la formazione di un nuovo governo nell’ottobre del 2020 potesse aprire uno spiraglio di dialogo. “La pandemia”, scriveva il 25 settembre la Coordination ai sette partiti impegnati nei negoziati, “ha reso la regolarizzazione un’emergenza sanitaria e sociale”. L’appello è caduto nel vuoto. L’esecutivo (una coalizione più improbabile delle precedenti, formata da liberali, socialisti e verdi di entrambe le comunità linguistiche, oltre che dai cristiano-democratici fiamminghi) ha prudentemente evitato d’inserire il tema nell’accordo di governo. “Le persone sono stufe, sono disperate. Bisogna insistere sulla responsabilità del governo nell’aggravare una situazione esplosiva”, era stato il commento di Sebastian.

Bruxelles, Belgio, 2 giugno 2021. Un infermiere assiste i migranti in sciopero della fame nella chiesa di Saint-Jean-Baptiste au Béguinage. (Kenzo Tribouillard, Afp)

Poco tempo dopo il nostro scambio, una parte del movimento dei sans-papiers ha deciso di lanciare una nuova mobilitazione, più radicale. Prima di prendere la difficile decisione di cominciare uno sciopero della fame, l’Union pour la régularisation des sans-papiers aveva cercato per mesi di stabilire un dialogo con il governo. Il suo interlocutore principale, il cristianodemocratico fiammingo Sammy Mahdi, segretario di stato per la migrazione e l’asilo, non voleva sentir parlare di “regolarizzazione collettiva”. Continuava a ripetere che ogni caso andava esaminato individualmente, come se le centinaia di persone ormai diventate l’ombra di se stesse, persone che vivono e lavorano in Belgio da anni, a volte decenni, non avessero già tentato in tutti i modi di regolarizzarsi. La maggior parte di loro lavora in nero in settori non delocalizzabili come l’edilizia, la ristorazione e le pulizie, ma per ottenere un permesso di soggiorno legato al lavoro dovrebbero tornare nel loro paese di origine e inviare una richiesta da lì, con tutti i costi, i rischi e la sofferenza che un allontanamento dal Belgio implica.

Mahdi, il cui partito nelle Fiandre perde consensi a favore dei nazionalisti della N-VA e del Vlaams Belang, non può però permettersi di ammorbidire la sua posizione. Dopo aver risposto alle critiche dalle pagine del giornale La Libre Belgique, il 15 luglio ha annunciato la creazione di una “zona neutra” accanto alla chiesa del Béguinage, dove a sentir lui le persone potranno farsi spiegare “per quali ragioni hanno una chance o meno di ottenere una regolarizzazione”. Con questa mossa probabilmente sperava – illudendosi – di dividere il fronte sempre più ampio che sostiene i sans-papiers (formato da sindacati, università, ong, rappresentanti del mondo della cultura e numerosi collettivi).

Il 16 luglio, giorno dell’ultima seduta parlamentare prima della pausa estiva, l’Union des sans-papiers pour la régularisation ha annunciato che alcune persone sono ora anche in sciopero della sete. Il timore che possano presto registrarsi i primi decessi si è trasformato in conto alla rovescia. I raduni di sostegno si moltiplicano. Solo il 17 luglio ce ne sono stati due, uno a Bruxelles e l’altro a Gent. Intanto in rete continuano a girare due petizioni, la prima lanciata dalla Coordination des sans-papiers e dalla testata Sans-Papiers Tv per invitare i cittadini e le cittadine ad aderire alla mobilitazione, la seconda per chiedere alla camera di esaminare una proposta di modifica della legge sugli stranieri del 15 dicembre 1980.

Il 15 luglio oltre cento personalità belghe e straniere avevano esortato il governo belga ad accettare le richieste degli scioperanti, e lo stesso hanno fatto il giorno dopo novanta eurodeputati, ricordando che il Belgio non è un’eccezione. “L’attuale politica europea di migrazione e di asilo”, scrivono all’inizio della loro lettera aperta, “lascia migliaia di persone sans-papiers nell’invisibilità, condannandole a una vita di precarietà e di paura”. Benché sia difficile raccogliere dati precisi su una popolazione invisibile, in Belgio sarebbero tra le centomila e le centocinquantamila (qui alcune precisazioni), mentre in tutta l’Unione europea parliamo di milioni di persone (per il 2017 la stima del Pew Research Center era compresa tra i 3,9 milioni e i 4,8 milioni).

Tutti gli stati membri, con il beneplacito della Commissione europea, discriminano e perseguitano le persone dette in soggiorno irregolare, e ovunque il percorso della regolarizzazione è complesso e sfiancante. Il Belgio spicca però per il suo approccio particolarmente arbitrario. Durante una recente visita alla chiesa del Béguinage Oliver De Schutter, docente di diritto e rapporteur delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, ha ricordato che la legge belga “non impone alle autorità nessun termine entro il quale prendere una decisione” su una richiesta di regolarizzazione: “Ho conosciuto persone che hanno aspettato cinque o sei anni prima di ricevere una risposta”. Inoltre questo sistema non prevede “criteri di regolarizzazione oggettivi”. Le autorità possono concedere un permesso di soggiorno in via eccezionale come possono negarlo: si tratta di un favore.

Forse è proprio quest’arbitrarietà a spiegare l’esasperata determinazione dei sans-papiers, che rischia di far cadere un governo nato malfermo. Dopo aver tenuto un profilo basso sulla questione per mesi, i socialisti e i verdi si sono finalmente decisi ad appoggiare ufficialmente la mobilitazione, chiedendo il rilascio di permessi temporanei agli scioperanti, una conferenza interministeriale per parlare di immigrazione e lavoro, la creazione di una commissione indipendente che esamini le richieste di regolarizzazione basandosi su criteri chiari e oggettivi.

In passato, per indebolire i movimenti dei sans-papiers prima che raccogliessero troppo sostegno nella popolazione ed evitare scioperi della fame a oltranza, alcuni governi hanno regolarizzato – dietro le quinte e solo temporaneamente – gli attivisti. Mahdi sostiene che una regolarizzazione collettiva di questo genere sarebbe “ingiusta” verso tutte quelle persone che hanno accettato di tornare nel proprio paese di origine dopo essersi trovate in soggiorno irregolare. Ma di ingiusto c’è solo un sistema che nega alle persone il diritto di vivere e lavorare in quella che è diventata la loro nuova casa, ponendole di fronte a una falsa alternativa: essere espulsi con la forza o andarsene “volontariamente”.

Perdita di umanità
Ha ragione Mahdi quando sostiene che queste persone “non hanno il diritto di restare”. Ma un tempo le donne non avevano il diritto di votare, i lavoratori non avevano il diritto alle ferie, gli schiavi non avevano il diritto alla libertà. Sono decenni che la lotta contro le discriminazioni basate sullo status amministrativo va avanti, in Belgio come altrove. “Siamo noi gli immigrati. Siamo noi gli stranieri. Siamo noi i lavoratori. Siamo noi gli schiavi dei tempi moderni”. Sono parole tratte da un comunicato del 1975. Quell’anno a Bruxelles nove lavoratori – sette marocchini e due tunisini – fecero uno sciopero della fame “per ottenere un permesso di lavoro e un permesso di soggiorno, e anche per sollevare la questione dei quarantamila immigrati detti clandestini”. Quella che fu la prima azione politica di lavoratori senza documenti è raccontata in un bel numero della rivista Bruxelles en mouvements dedicato a “Bruxelles sans papiers”. I nove uomini furono rimpatriati in fretta e furia dalle autorità belghe, che, travolte dalle proteste, accettarono di regolarizzare ottomila persone.

L’Union pour la régularisation des sans-papiers è l’erede di quei nove lavoratori. Come tanti altri movimenti negli ultimi quarantacinque anni, sta aggiungendo il suo tassello a una lotta per i diritti civili di alcune e alcuni, ma per la dignità di tutte e tutti, perché, come scrive l’etnopsichiatra belga Luc Decleire, “la perdita di umanità ha conseguenze per ognuno di noi”.

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