09 agosto 2016 18:00

Rappresentare il sentimento d’ineluttabilità verso la morte avvolgendolo in una sorta di poesia leggera quanto intensa, una delicatezza reale che rende quasi difficile allo spettatore staccarsene, una volta giunti i titoli di coda. Questo è riuscito a due film presentati in questi giorni a Locarno. Entrambi indagano il passato: il romeno Inimi cicatrizate di Radu Jude è ambientato alla vigilia della seconda guerra mondiale e l’indonesiano Istirahatlah kata-kata (Solitudine) ricorda il passato più recente del paese del regista, sotto la tirannia di Suharto.

Radu Jude (classe 1977, qui al suo secondo lungometraggio) adatta per il cinema l’autobiografia dello scrittore Max Blecher, morto di tubercolosi ossea a soli 29 anni, ne trae ispirazione per girare Inimi cicatrizate (nella sezione Concorso internazionale) e cambia il nome del protagonista, che qui prende il nome di Emanuel.

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Siamo nella Romania del 1937 e tutti i grandi eventi mondiali e nazionali restano fuori campo, mentre intorno c’è il progressivo avanzare della tragedia personale di Emanuel. Forse potremmo dire anche fuori bordo, perché l’intero film (che dura 140 minuti) ha il formato dei film muti, pur essendo girato con colori quasi pastello, ma con i quattro angoli smussati, al pari delle foto d’epoca. Un formato indirettamente anche televisivo.

La tortura della malattia

Il rischio di calligrafismo da buon sceneggiato televisivo d’altri tempi (ma che richiama un po’ anche certi film di Lucian Pintilie, veterano del cinema d’autore romeno) progressivamente si dissolve. Jude ci immerge nella tragedia di Emanuel, facendoci oscillare assieme a lui tra le vane e crudeli speranze di guarigione e il progredire della malattia. Emanuel, da un certo momento in poi, sente che sta sprofondando e la sua sensazione diventa anche quella dello spettatore.

La prima parte del film offre un affresco d’epoca raro, un vortice di movimenti di persone, un ritratto della vita quotidiana di parenti, pazienti, medici e infermieri e di quella fuori del corso normale dei malati, immolati in orribili supplizi spacciati per cure negli ospedali-sanatori.

Dolori e supplizi, fisici e psicologici, che, come scrive Blecher/Emanuel, sono tuttavia nient’altro che “degli atomi nell’oceano degli avvenimenti esterni”. L’implacabile lucidità con la quale Bletcher legge la sua condizione (l’intero film è inframmezzato da estratti di grande bellezza della sua autobiografia) a un certo momento si salda davvero con la narrazione filmica, che nella prima metà è soprattutto elegante rappresentazione di un mondo medico (non sappiamo quanto precisa ma certo inusitata al cinema) che pare oggi quasi surreale.

A fare da contrappunto, ci sono il vociare confuso, le urla dei pazienti, le sedute mediche, ma anche le feste, le letture, le nette convinzioni politiche, gli entusiasmi, gli amori e le avventure sessuali, insomma il desiderio di una vita piena di questo giovane ebreo intelligente, sensibile e brillante ma costretto perennemente a letto da un busto. Tortura nella tortura che contiene già tutta l’immobilità, eterna e silenziosa, della morte.

Radu Jude suggerisce che forse è indefinito anche il confine (o il bordo, si potrebbe dire) tra la belle époque e l’era moderna, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Non c’è molta distanza tra i supplizi vissuti da tanti giovani durante la guerra delle trincee e quelli che che si apprestavano a vivere i giovani giunti alla maturità negli anni trenta.

Vicinanza spirituale

Così, dietro la grazia della cornice affiora un preciso ritratto della condizione umana. La morte arriva come una mannaia improvvisa, anche se sotto forma di poesia. La poesia della serenità di un cimitero immerso nel verde della natura, dove riposa Max Blecher, che per la prima volta appare nel film. Anche il mare lo si scorge appena, l’attenzione è tutta incentrata sul protagonista. L’unica pace possibile sembra quella del cinguettio degli uccelli, nel nero dei titoli di coda.

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Istirahatlah kata-kata (presentato nella sezione Cineasti del presente) di Anggi Noen Yosep, qui al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti e un documentario, è l’esempio perfetto di come si possa fare contemporaneamente un film intenso su una questione politica importante e un ritratto dell’animo umano. Il protagonista del film è il poeta Wiji Thukul, oppositore del regime di Suharto e scomparso misteriosamente nel maggio del 1998.

Anggi Noen Yosep lavora sul fuori campo, sulla capacità di rendere eloquenti i silenzi, sulle atmosfere (davvero notevoli), su inquadrature piane e raffinate assieme, da cui affiora una grande semplicità umana immersa in una sorta di serenità al limite del contemplativo che, se preannuncia la tragedia e l’oscurità, lascia nello spettatore tutta l’intensità della poesia di una vita vissuta nella giustezza. Una semplicità umana che rende Wiji Thukul vicino spiritualmente a Max Blecher.

Questo film, che meriterebbe più spazio, ci sarebbe piaciuto vederlo proiettato in piazza Grande (o in Concorso). Un festival come quello di Locarno ormai ha la caratura sufficiente per lanciare una provocazione politica di questo tipo, anche in luoghi e ambiti più consensuali.

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