23 ottobre 2019 12:53

La trascinante sequenza d’apertura è come un’ouverture musicale, anche grazie al tipo di colonna sonora. Così come la musica accompagna la danza, qui accompagna le immagini, in un carosello di inquadrature splendide che ci fanno scoprire altrettanti splendidi scorci di una città vitale ed elegante, maestosa nei viali come nelle architetture, dai colori vividi: L’Avana, a Cuba. Le angolazioni delle inquadrature sono sempre diverse al pari dei luoghi ripresi, delle tipologie umane, dei movimenti vettoriali al loro interno spesso variegati, che scopriamo essere le immagini colte dallo sguardo di un uomo alla guida di un’automobile. È il protagonista di Yuli – Danza e libertà, film fresco, limpido e arioso pur raccontando una dolorosa quanto incredibile storia di vita ed emancipazione sociale.

È Carlos Acosta, il più piccolo di undici figli nati in una famiglia poverissima dell’Avana ma che nonostante tutto è riuscito a diventare una stella della danza mondiale, esibendosi allo Houston ballet, all’American ballet theatre, all’English national ballet e in modo particolare al Royal ballet di Londra, primo nero a interpretare Romeo in Romeo e Giulietta.

Acosta, nato nel 1973, interpreta qui se stesso nella sequenza iniziale e in tutta la parte ambientata nel presente. Nell’adattare la sua autobiografia, la regista spagnola Icíar Bollaín ha diretto un film dalla struttura inedita costruito insieme alla sceneggiatura di Paul Laverty, il suo compagno.

Un omaggio alla danza
Una coppia, lo vogliamo sottolineare, non consueta nel cinema. Bollaín è al suo ottavo lungometraggio dopo un passato da attrice – ha debuttato a quindici anni recitando insieme a Omero Antonutti in El sur (1983), diretta da uno dei più grandi poeti del cinema del secondo dopoguerra, Victor Erice – mentre Laverty è stato sceneggiatore di diversi titoli di Ken Loach come Terra e libertà, in cui Bollaín recitava, e Io, Daniel Blake, entrambi Palma d’oro a Cannes.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Quanto alla struttura, non lineare eppure estremamente fluida e leggiadra come un volteggio di danza, alterna con abilità e finezza segmenti del presente, interpretati come detto dal vero Acosta, con flashback dell’infanzia del ballerino, interpretato dal notevole Edilson Manuel Olbera, e da altri flashback, incentrati sull’inizio della carriera all’estero di Acosta, in cui quest’ultimo, ormai giovane adulto, è invece impersonato da Keyvin Martinez, ballerino cubano di fama internazionale qui alla sua prima interpretazione. A tutto questo si aggiunge, idea geniale della regista e dello sceneggiatore, l’inserimento di numerose e bellissime sequenze di danza. Come quelle con Acosta girate nel presente, che mima la sua vita con la compagnia che ha costituito a Cuba. Perché questo film, va assolutamente sottolineato, è anche un omaggio a una danza, quella cubana, sia classica sia contemporanea, di alto livello.

Lo spiraglio di luce è il talento incredibile nella danza che tutti scorgono nel piccolo Carlos

Nel ritrarre la Cuba tra gli anni ottanta e novanta, e in modo particolare la Cuba povera e popolare attraverso le traversie di un microcosmo familiare, emerge un ritratto inusitato di quell’infanzia negata o rubata che già tanto cinema ha raccontato, come per esempio François Truffaut con I quattrocento colpi, per citare il titolo forse più noto. Perché se le condizioni socioeconomiche pesano in maniera evidente nelle condizioni di vita di una famiglia, o di una comunità, possono poi emergere fattori del tutto specifici che complicano l’insieme ma lo rendono al contempo più inatteso e interessante, paradossalmente capace di aprire sul lungo termine uno spiraglio di luce nel grigiore di una vita derelitta.

Questo spiraglio è il talento incredibile nella danza che tutti scorgono nel piccolo Carlos, la famiglia, e in particolare il padre, come pure gli insegnanti della Scuola nazionale di balletto dell’Avana, un’accademia di altissimo livello dove Carlos è prodigiosamente riuscito a essere ammesso gratuitamente. Tutti, tranne il diretto interessato che vive questo dono come una maledizione, reazione paradossale ma comprensibile. Carlos Acosta è all’epoca un bambino di dieci anni e vorrebbe prima di ogni altra cosa divertirsi e avere una vita normale.

Un’ombra pesantissima
Il rapporto con il padre è improntato a un misto di amore e odio per la sua spietatezza se non crudeltà nell’esprimere una sorta d’indifferenza verso i bisogni che il figlio rivendica anche da adulto e nel ridurre tutto alla missione di far maturare il talento di Carlos. Si può dire che tutto è un po’ ossessivo nel padre, più profondamente rivendicativo della sua condizione di nero discendente da una famiglia di schiavi fino a tempi relativamente recenti. Un’ombra pesantissima questa. Il passato familiare legato alla schiavitù emerge nella splendida sequenza dove il padre narra a Carlos, ancora bambino – immersi nella natura e nelle vestigia di monumenti – della loro dolorosa discendenza, con lo scopo di creargli prima di tutto una consapevolezza storica, una consapevolezza identitaria. Vi è fierezza, dignità nel padre. È come se attraverso suo figlio combattesse una battaglia, di altro tipo rispetto a quella dei suoi antenati guerrieri, ma pur sempre una dura battaglia. Quel flashback fatto di vita reale ha un taglio quasi antropologico e un sapore di memoria arcaica.

È il padre ad avere quella spietatezza che non di rado ritroviamo nelle biografie dei grandi talenti che vogliono emergere, non il figlio

Al contempo, sempre attraverso il figlio è come se lui stesso riuscisse a emanciparsi. In fin dei conti è un tratto comune a tante storie di persone dalle origini umili che hanno avuto un figlio al quale è riuscita la scalata sociale, o addirittura di diventare una celebrità. Il flashback si conclude con un abbraccio delicatissimo tra padre e figlio. A quella sequenza ne segue un’altra, la prima importante di ballo nel presente, che riparte da quell’abbraccio ma a parti invertite: Carlos Acosta interpreta il padre, un giovane ballerino adulto interpreta invece Carlos da piccolo. Una visione, questa del primo ballo, fortemente toccante, commovente.

Nel flashback, come nella sequenza di ballo, nel raccontare per frammenti la storia della Cuba più povera e marginale si parte dalla nonna di Carlos Acosta, nata schiava nella piantagione Acosta. Un cognome che ci si porta dietro per sempre come un macigno, il macigno della memoria della sofferenza umana tra le più immani, tra le massime vergogne della cosiddetta civiltà.

In una perfetta interpenetrazione tra i due livelli, i frammenti di ballo diventano così lo specchio della vita reale, dove questa è ricostruita simbolicamente e narrata con pura poesia e senso del trascendente, mentre nel resto del film la vita è raccontata più prosaicamente, ma anche in maniera sentita, vivida, con fine attenzione alla descrizione delle dinamiche familiari e agli stati d’animo dei vari personaggi. Comprese le loro vicissitudini, in particolare quelle della madre di Carlos che non si riprenderà più dal trauma della separazione dalla sorella, partita a vivere a Miami negli anni ottanta. Il film ne restituisce la giusta presenza paradossalmente mediante la rappresentazione della sua progressiva assenza.

Uno dei tratti costanti del film è quello di mettere in evidenza che le parti tra padre povero e figlio con talento d’artista sono rovesciate: è il padre ad avere quella spietatezza che non di rado ritroviamo nelle biografie dei grandi talenti che vogliono emergere, non il figlio. Ma la tirannia del padre ha successo. Il film non trancia sulla sua figura e lascia a tutti la possibilità di farsi un’opinione così come su una certa immaturità di Carlos, poiché un’intera comunità si è sacrificata nell’aiutarlo. Tra questi gli insegnanti cubani di ballo che hanno corso dei rischi personali. Non ci sono santini, solo umanità sofferta. E il padre alla fine rivelerà la sua, di umanità. La propria riconoscenza.

Quella di Carlos, non è solo verso la famiglia, ma verso la sua patria, le sue origini soprattutto. In questo contraddice in parte il padre, che riteneva dovesse dimenticare l’isola e mettere al centro Londra. Pur naturalizzato britannico, la costituzione di una propria compagnia di ballo a Cuba sembra essere per lui il primo atto, è la parola giusta, per dare il proprio contributo al paese dove è nato. Perché, come dice Acosta alla fine: “Io posso dare solo quello che sono. E io sono figlio tuo, il figlio del camionista Pedro Acosta, figlio di Ogún, il guerriero. Questo è ciò che sono”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it