22 agosto 2022 17:44

È uno degli eventi, se non l’evento, di questa nuova stagione cinematografica. Crimes of the future, il nuovo lungometraggio del quasi ottantenne David Cronenberg, già presentato in concorso a Cannes, arriva su oltre duecento schermi preceduto da una rassegna a lui dedicata (David Cronenberg: la nuova carne) in alcune città come Roma, Milano e Torino che sta facendo registrare il tutto esaurito ogni giorno e a ogni orario malgrado tutto sia proiettato in versione originale con sottotitoli. La speranza è che la rassegna arrivi anche altrove e che alcuni dei titoli più richiesti possano essere ancora riproposti laddove sono già stati proiettati. E che, soprattutto, porti fortuna al film.

Tanto più è vero se si guarda al fatto che all’inizio della scorsa stagione Lucky Red aveva portato in sala diversi titoli espressione di un grande cinema d’autore, se non proprio dei capolavori, come Il collezionista di carte del veterano Paul Schrader (prodotto dal suo amico Martin Scorsese), Il buco di Michelangelo Frammartino (premiato a Venezia), A Chiara di Jonas Carpignano (che chiudeva la sua trilogia Rom) e lo straordinario Il potere del cane di Jane Campion, per citare solo quelli usciti a ridosso della Mostra di Venezia. Non tutti, a causa della pandemia, hanno raccolto quanto avrebbero potuto fare in tempi normali, anche se il film di Campion, una produzione Netflix, in seguito è stato riproposto abbastanza spesso in sala.

Pertanto il consiglio è di tenere d’occhio la programmazione delle sale: non è escluso che possano riproporli ancora così come le sale del normale circuito d’autore stanno riproponendo grandi classici del cinema restaurati o nella loro versione integrale, come Elephant man di David Lynch o Apocalyse now di Francis Ford Coppola, proseguendo così la politica cominciata la scorsa stagione. E nel listino Lucky Red si annunciano del resto altri importanti titoli – da Roberto De Paolis che a Venezia aprirà la sezione Orizzonti con Princess fino ai Dardenne, passando per Lukas Dhont o Hirokazu Kore’eda – così come per Academy Two, Teodora Film, Bim, Tucker Film, Movies Inspired e tutte le altre società di distribuzione, spesso più piccole ma non meno meritorie.

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Quindi Crimes of the future è un po’ come la necessaria “porta”, qui intesa in senso cronenberghiano, per tornare a vedere sul grande schermo delle opere che non nascono seriali e che contrariamente alle serie, come abbiamo già scritto dal festival di Il Cinema ritrovato, trascendono la sceneggiatura tramite la figura stessa del regista. Ed è un esempio perfettamente calzante per Cronenberg. Per quanti cineasti, infatti, si può declinare in aggettivo il cognome, così come si fa in pittura? Vengono in mente Fellini, Rossellini, Godard, Lynch. L’importanza del suo “assurdo universo”, per citare il titolo di un celebre romanzo di Frederic Brown, è dimostrata dal fatto che purtroppo è sempre meno assurdo rispetto alla realtà stessa.

Crimes of the future è un po’ una summa di gran parte della sua cinematografia improntata alla rappresentazione dell’avvento della “nuova carne”, come recita il titolo esemplare della rassegna. Una grande sintesi, ma non solo. Pochi film ci parlano in profondità della nostra società come questo, e infatti qui si dice esplicitamente di come la mutazione della carne sia una questione politica.

Emblema di una fine di civiltà di cui abbiamo scritto da Cannes, la nuova pellicola di Cronenberg è avvolgente, ipnotica e densa fino alla fine, fine che forse coincide con la (nuova) morte. E sottolineiamo il “forse”: il concetto di futuro, nel film, è molto criminoso, tanto che per la prima volta il cineasta apre con la morte di un bambino e intorno a essa fa ruotare l’intera vicenda che in fondo è anche una crime story visionaria. In un’intervista ai Cahiers du Cinéma è stato fatto notare come già nel precedente Maps to the stars (2014) l’infanzia e la morte venivano legate, e il regista ha spiegato che questa “è l’essenza stessa del film. La morte di questo bambino torna regolarmente e ne segna addirittura la conclusione. Parlare del futuro significa parlare dei bambini. È il motore del film”.

Un nuovo cinema
In Crimes of the future, Viggo Mortensen è l’artista visivo Saul Tenser, autore di performance artistiche di body art estrema. È assistito, accompagnato e amato in una maniera tutta particolare da Caprice (Léa Seydoux), una donna dolce, a tratti quasi soave, in un mondo all’apparenza felicemente neo-medioevale, fatto di oscurità e anfratti bui ma anche splendidamente fotografati: come fossero un nuovo cinema.

In un ambiente in decadenza perenne e cultore dell’inumano come fatto naturale, è fondamentale la presenza di Seydoux, che si conferma un nuovo grande volto del cinema internazionale. Il suo cognome ha la parola dolcezza dentro, e avvolge il film con qualcosa di profondamente umano inteso in senso antico (quantomeno rispetto alla tematica del film). L’attrice ne sembra cosciente: a detta di Cronenberg è stata lei a preferire questa parte a quella dell’agente della sicurezza Timlin (Kristen Stewart) che le era stata assegnata.

Saul Tensen è uno di quei pochi personaggi che potremmo definire umani, almeno secondo i nostri attuali canoni. Pare al contempo un artista vecchio stampo dell’arte contemporanea, quindi autentico, con qualcosa del nuovo, o presunto tale, perché comunque attrattone. Un uomo al confine, trafitto sulla soglia, sulla porta che, come già in tanti altri film di Cronenberg, si trova più che mai nel corpo: una di quelle fessure dove il richiamo sessuale e la ferita forse mortale sembrano equivalersi. Ma la sua voce roca, cavernosa, sembra esprimere un antico dolore. Macilento e torturato come il vero artista, la sua immagine metaforica esprime qualcosa dei primi punk. Di quando da sporchi, disperati e violenti, erano espressione del proletariato più marginalizzato, prima che con il riflusso degli anni ottanta si svuotassero del loro senso e diventassero pura estetica.

Saul si muove lungo questo confine tra l’artista vuoto e l’artista pieno. Anche perché qui interviene un nuovo elemento nel cinema di Cronenberg: il tatuaggio. “Il tatuaggio assume la figura, la forma dell’organo stesso”, dice il protagonista. “In un certo senso lo domina, gli dà un’altra forma. Non è solo parassitario, anche se in parte lo è, se vogliamo. Sembra togliere significato all’organo. E fare proprio il processo legato al significato”. È quasi un’esegesi teorica del film e forse di tutta la cinematografia del regista.

Le mutazioni cancerose, fondanti del suo cinema, all’interno del corpo instabile di Saul si dislocano liberamente, in maniera “altra”. Vengono fatte crescere e asportate in pubblico da Caprice e si rivelano in quanto opere artistiche che pretendono di mostrare una nuova interiorità. Ma “quando la specie umana si adatta a un ambiente sintetico”, per dirla con la nota di regia, forse più niente ha un significato profondo. Così come per la bistecca di carne teletrasportata in La mosca, che non ha più lo stesso sapore. Ma al contrario dei primi film del regista canadese, il potere delle multinazionali sembra talmente endemico da mutarsi in ideologia naturale al pari dei corpi svuotati di senso, perfino quello di un bambino, a sua volta mutato: “Il primo a essere naturalmente innaturale”.

Siamo in un mondo che non distingue più il reale dal virtuale e perfino dall’arte stessa, ormai fatta di installazioni sul corpo vivo dell’umanità e ridotta a status estetico fine a se stesso. L’arte stessa, infatti, svuota (e ricrea?) l’interiorità degli esseri umani con l’esaltazione continua di una mercificazione quasi indistinguibile dalla creazione, e che nel film è simboleggiata dalla LifeFormWare che torna spesso. Perché, come viene detto, “bisogna pensare a quel che è successo alla soglia del dolore. Il mondo è molto più pericoloso ora che il dolore è quasi scomparso. Il dolore è un sistema di allerta che non abbiamo più”.

Se i limiti dell’arte e dell’umano, oltre che della civiltà, si toccano come forse mai prima in una rappresentazione cinematografica, questo “disegnare la mappa del caos interiore affinché ci guidi verso il cuore delle tenebre” è quasi da dramma del teatro greco reinventato e trasfigurato in una chiave che va persino oltre il postmoderno. Giunto oltre ogni soglia, Cronenberg tocca un limite ambiguo: potrebbe anche piacerci questa “nuova carne”.

E a questo maestro del cinema noto per la sua gentilezza e garbo anche verso chi non conta niente, e che con tanta lucidità e coerenza prosegue il suo percorso artistico, facciamo i nostri migliori auguri di un futuro di ottima salute. Corporea e creativa.

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