Film d’esordio del regista marocchino Kamal Lazraq, vincitore l’anno scorso a Cannes del premio della giuria nella sezione Un certain regard, arriva nelle sale italiane Noir Casablanca. Ed è uno dei migliori noir visti al cinema negli ultimi anni, dalle grandi atmosfere, con personaggi forti e ben definiti, un ritmo serrato e una narrazione densa in appena novanta minuti. Inoltre, è un’opera capace di delineare una notevole rappresentazione del contesto sociale che racconta, ma sempre caratterizzata dalle domande metafisiche che connotano il noir. Per quanto non sprovvista di una sottile ma continua dose d’ironia.

Niente folklore però, o romanticismo occidentale, malgrado quel che evoca il nome Casablanca, in particolare per il celebre film del 1942 di Michael Curtiz. Siamo nella zona portuale piena di rifiuti ed edifici abbandonati o slabbrati, dunque tra i margini della città e i marginali che compiono azioni più o meno illegali per sopravvivere. E siamo nella quotidianità più prosaica, anzi nel terra-terra potremmo dire, perché è un’immersione nelle strade in terra battuta della periferia cittadina, e ancor più al di fuori dell’agglomerato urbano.

Già le primissime sequenze anticipano quel che sarà il tono del film, le sue atmosfere, il tema di fondo. Noir inteso quasi letteralmente come oscurità, buio, notte. Un’oscurità opprimente e forse definitiva come la morte che si appiccica ai suoi personaggi al pari dell’umidità nella foresta amazzonica. L’oscurità di cani neri da combattimento condannati al gioco delle scommesse e la morte di uno di loro con cui si apre il film. La rabbia ben visibile sul muso dell’animale vincitore e la rabbia nel volto del proprietario di quello morto, che si confondono grazie al lavoro sui primi piani. La rabbia, sia quella compressa sia quella che esplode, sia quella interiore sia quella sociale, che sembra quasi una malattia come quella da cui i cani possono essere affetti.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

I successivi squarci di luce nella realtà diurna sono ingannevoli perché di breve durata. In questo gran film di determinismo sociale su esseri umani rinchiusi, imprigionati in una realtà sociale senza uscita, la prigione della notte e della sua oscurità prende presto il sopravvento, imponendo la circolarità tra giorno e notte, quella del film e del suo finale.

Protagonisti due uomini, uno maturo e uno giovane, padre e figlio, Hassan e Issam. Il padre coinvolge il figlio in un’azione sospetta per conto di Dib, il capo del clan del padre, azione che avrebbe dovuto essere semplice ma che comporterà presto una morte involontaria. Come sbarazzarsi di un cadavere non voluto sarà all’origine di un avvincente viaggio notturno senza fine, un deambulare insensato come forse lo è drammaticamente l’esistenza stessa. Teatralità dell’assurdo e drammaticità della vita in realtà si equivalgono e tutto si mantiene su un filo sottile grazie a un perfetto lavoro che amalgama vari elementi messi in gioco.

In tal senso l’ironia sottotraccia, pervasiva, mai esibita, è il rovescio speculare del cinema dei fratelli Coen, citato fin dall’intervista con il regista pubblicata nel dossier stampa, in cui si fa l’analogia con dei “personaggi coinvolti in una spirale di eventi su cui non hanno alcun controllo”. Viene da pensare in particolare al film d’esordio della coppia, Sangue facile (1984), per via dell’immersione nell’oscurità e del trasporto di un cadavere sul sedile posteriore di un auto. Per il regista il film “non è una commedia di per sé, è molto cupo, eppure include questo sottofondo di ironia. Pur non essendo una commedia, c’è un importante sottotesto ironico, che a tratti verte quasi sul grottesco, l’assurdo”. Se quindi è stilisticamente privo del parossismo, dell’iperbole, degli eccessi di sceneggiatura e prima di tutto di regia – sia pure gestiti il più delle volte con padronanza – tipici della filmografia dei Coen, l’ironia sull’assurdità dell’agire umano è onnipresente, quasi come se vi fosse una predestinazione. Ma il registro con cui è inserita è sommesso, discreto, sottile.

Nondimeno il ritratto notturno della periferia di Casablanca, benché crudo, è allo stesso tempo profondamente umano, capace di captare stati d’animo profondi, e sociologico, anzi diventa una fotografia quasi antropologica di tipologie inserite in un ben preciso contesto sociale. Straordinari in questo senso i volti degli attori, in particolare quelli degli interpreti del padre (Abdellatif Masstouri) e del figlio (Ayoub Elaid), entrambi non professionisti. Pur avendo elaborato una sceneggiatura molto precisa, il regista ha lasciato sempre spazio all’improvvisazione, e da questo punto di vista il film trova una sua prossimità con il cinema neorealista che tanto ama.

La religione è onnipresente, permea ogni cosa, divenendo superstizione. Nella rappresentazione che ne fa Lazraq è proprio questo angoscioso fatalismo a creare quella che sembra una predestinazione del fato, insieme ovviamente alle politiche socioeconomiche, come in ogni parte del mondo.

Hassan e Issam, come suggeriscono i nomi dal suono simile, sono due mondi quasi opposti messi allo specchio, ma anche molto vicini. Essere uomini degni, elevarsi faticosamente a qualcosa di più alto, rasenta la loro ossessione, espressa anche da un gran lavoro di cesello sui dialoghi, non di rado secchi. Vorrebbero ma, nel concreto, non sanno bene come poter fare.

Hassan e Issam gradualmente si danno il cambio nell’azione, tra passività e intraprendenza, così come in questo anelito, seppur contraddittorio. Qui entriamo nella dimensione metafisica, quasi spirituale, di questo film noir. Il desiderio di riscatto del padre verso il figlio che pian piano lo giudica – notevole il lavoro di regia sugli sguardi nello scrutare i volti, al pari dei silenzi pieni di non detti – rappresenta un’inversione di ruoli consolidati in una società profondamente segnata dalla tradizione. E la paura, a tratti vero terrore, suscitata da superstizioni che sembrano quasi inseguire i due protagonisti, trova infine la dignità della ribellione comune tra generazioni diverse. Ma l’ironia della sorte è in agguato fino alla fine, fino all’alba che chiude la circolarità della notte.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it