15 febbraio 2020 13:42

Tame Impala, Is it true
I Tame Impala hanno abbracciato definitivamente il pop, o perlomeno la loro idea di pop. The slow rush, il nuovo album della band australiana guidata da Kevin Parker, è il lavoro più scanzonato della loro carriera, ancora più del precedente Currents. The slow rush ha uno spirito californiano, evoca Los Angeles (dov’è stato in parte registrato), ma anche Miami, tra suoni funk e disco, con una leggerezza inedita che sembra alimentata dalle collaborazioni di Kevin Paker con popstar come Lady Gaga e Kanye West.

A un primo ascolto, The slow rush sembra avvolto dentro un unico flusso sonoro ma, come spesso succede con i Tame Impala, con il passare del tempo emergono nuovi dettagli. Per esempio si nota la raffinatezza melodica di Posthumous forgiveness, un delicato brano alla John Lennon di Jealous guy dedicato al rapporto tra padre e figlio, o vengono fuori le stratificazioni del pezzo iniziale One more year, dedicato al tema del tempo (che percorre gran parte del disco), con i suoi sintetizzatori granulosi e il solito lavoro certosino sulla batteria e le percussioni, specialità di casa Parker. Nella sporca Is it true invece spicca un riff alla Daft Punk.

L’album è un intrigante caleidoscopio sonoro, ma ha un difetto: gli manca un singolo. Nonostante la lunga gestazione, il gruppo non è riuscito a tirare fuori quei due o tre ritornelli che avrebbero reso l’album un lavoro da ricordare. I pezzi che vorrebbero essere i singoli, come per esempio Borderline, non trovano la quadra, mentre va meglio con Lost in yesterday. E anche la voce di Kevin Parker, da sempre un po’ monocorde, fatica a trascinare certi passaggi melodici. The slow rush è buon disco di passaggio tra una fase e l’altra della carriera dei Tame Impala, che prosegue la strada inaugurata da Currents. Non è esaltante, ma neanche deprimente.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Billie Eilish, No time to die
In questo momento due giovani fratelli stanno dominando la musica leggera occidentale: Billie Eilish e Finneas O’Connell. Dopo aver sbancato le classifiche con l’esordio When we all fall asleep, where do we go? e aver conquistato i Grammy, ora si sono aggiudicati addirittura la colonna sonora del nuovo film di James Bond, No time to die.

No time to die, come da tradizione, è un brano orchestrale confezionato su misura per i titoli di testa del film di spionaggio britannico. Ma stavolta, va detto, la bravissima Eilish soffre il fatto di essere intrappolata in un recinto troppo stretto per lei. La sua performance vocale è impeccabile, l’arrangiamento è costruito con gusto, ma manca un po’ di magia. Del resto la concorrenza è spietata: dal capolavoro Goldfinger di Shirley Bassey alla Goldeneye di Tina Turner fino al superpop di Skyfall di Adele, in questi anni le canzoni di 007 non sono state proprio delle schifezze.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

The Strokes, At the door
Rieccoli, gli Strokes. La band di Julian Casablancas prova per l’ennesima volta a reinventarsi. Il nuovo disco, The new abnormal (bel titolo), uscirà il 10 aprile e per lanciarlo il gruppo newyorchese ha scelto un singolo atipico: At the door, prodotto da Rick Rubin, è una ballata anni ottanta dominata dai sintetizzatori e con giusto un po’ di chitarra nel ritornello. La batteria di Fabrizio Moretti è andata a farsi due passi, mentre l’attenzione si sposta tutta sulla voce, grazie al tipico lavoro di sottrazione che contraddistingue tutto quello che fa Rubin.

Julian Casablancas canta bene come non lo faceva da anni, e sembra di essere dalle parti del suo esordio solista Phrazes for the young. Un esperimento interessante, che crea curiosità nei confronti del disco.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Khruangbin & Leon Bridges, Texas sun
Il trio texano Khruangbin ha reclutato il cantante soul Leon Bridges, anche lui texano, per il suo nuovo ep Texas sun. Ottima idea, sembrano nati per suonare insieme. Le influenze della psichedelia asiatica (sì, avete letto bene) e delle colonne sonore tarantiniane che sono il marchio di fabbrica della band si fondono alla perfezione con la voce delicata di Bridges, dipingendo paesaggi sonori che fanno pensare proprio allo stato nel sud degli Stati Uniti.

Un brano perfetto per un viaggio in macchina, con un testo eccessivamente semplice. Ma è l’atmosfera che conta.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Al Di Meola, Strawberry fields forever
“I Beatles sono il motivo per cui suono la chitarra. Mi hanno dato la spinta per cominciare a fare musica, quindi hanno avuto un impatto decisivo sulla mia vita”, ha dichiarato il chitarrista virtuoso Al Di Meola presentando Across the universe, il suo secondo tributo ai Beatles in uscita il 13 marzo.

Il primo singolo estratto è questa versione impressionistica di Strawberry fields forever, uno dei brani più immortali del quartetto di Liverpool, pubblicato nel 1967 sul disco Magical mystery tour e frutto di notevoli esperimenti in studio, grazie al contributo del mai abbastanza celebrato George Martin.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it