09 marzo 2016 11:27

È un po’ come se fosse morto Paul McCartney o Ringo Starr. O come se fossero morti per la seconda volta John Lennon e George Harrison. Per i Beatles George Martin non è stato solo un produttore o un arrangiatore, ma qualcosa di più. Non a caso era soprannominato “il quinto Beatle”. Aveva 90 anni ed era nato nel 1926 da una famiglia operaia a Highbury. Il primo a dare la notizia è stato Ringo Starr su Twitter.

Da un punto di vista musicale, la scomparsa di George Martin lascia un grande vuoto. Ha aiutato la band di Liverpool a trovare il suo suono, che è poi il suono che ha influenzato quasi tutta la musica pop e rock uscita dagli anni sessanta a oggi. Ha permesso ai Beatles di usare lo studio di registrazione in un modo in cui non era mai stato sfruttato prima, sperimentando arrangiamenti innovativi e lavorando letteralmente al loro fianco. Grazie a lui Abbey Road è diventato un luogo mitico per gli appassionati di musica.

Dotato di una cultura musicale sterminata (da piccolo sognava di diventare “il nuovo Rachmaninov”) e di un modo di fare da gentiluomo britannico d’altri tempi, George Martin ha rappresentato la chiave di volta del passaggio dal pop di Love me do alla psichedelia di Revolver. Ed è stato bravo a trasformare in solide realtà le intuizioni un po’ visionarie di Lennon e McCartney.

Non è mai stato un tipo alla moda e sembrava venire da un altro pianeta rispetto a divi un po’ hippie come John Lennon e Paul McCartney. Senza di lui però non ci sarebbero state né Strawberry fields foreverA day in the life, forse la più bella canzone dei Beatles. Ha prodotto tutti gli album del quartetto tranne Let it be, al quale ha partecipato alla fase di gestazione prima del successivo coinvolgimento di Phil Spector.

Per capire il suo impatto nella musica dei Beatles, basta riguardarsi un pezzo del documentario sulle registrazioni di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, nel quale Martin parla proprio di A day in the life, una canzone-Frankenstein nata dal collage fatto in studio di due brani scritti e registrati separatamente da John Lennon e Paul McCartney. Il risultato finale, pensando al materiale di partenza, è fenomenale.

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Gli esempi potrebbero continuare: c’è il suo zampino nello strano accordo che apre A hard day’s night, nei nastri di chitarra registrati al contrario di I’m only sleeping, nelle geniali parti di batteria di Tomorrow never knows, un pezzo del 1966 che suona ancora oggi modernissimo. Oppure ancora il medley finale di Abbey road, che si chiude con la monumentale Golden slumbers e la strumentale The end. Insomma, senza George Martin i Beatles non sarebbero diventati i Beatles.

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Dopo l’esperienza con i Fab four, George Martin ha lavorato, tra gli altri, con Elton John, Celine Dion e Shirley Bassey, con la quale ha firmato la colonna sonora di Goldfinger. Ha prodotto più di 700 dischi, come ricorda la Bbc.

Fu proprio George Martin a far firmare il primo contratto discografico ai Beatles nel 1962. Il gruppo di Lennon e McCartney era appena stato scartato dalla Decca e fu proposto alla Parlophone dal manager Brian Epstein.

Quando ascoltò la prima demo, pensò che la band era “poco promettente”, come fa notare il sito Beatlesbible, ma gli piacevano le voci di Lennon e McCartney e decise di concedergli un’opportunità. All’audizione continuò a non essere entusiasta della musica del gruppo, ma fu conquistato dalla loro ironia. Quando chiese alla band se c’era qualcosa che non li convinceva, George Harrison disse: “La tua cravatta, per esempio”.

Dopo quella battuta, la leggenda vuole che si convinse definitivamente a fargli firmare il contratto. Forse, dentro di lui, una vocina gli diceva che con quei quattro ragazzi di Liverpool si poteva lavorare bene. A distanza di anni non possiamo che ringraziarlo.

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