08 giugno 2017 16:19

Le donne erano sistematicamente violentate dai proprietari terrieri. Se i mariti protestavano venivano licenziati. La mortalità infantile era altissima: più della metà dei bambini moriva prima di aver compiuto cinque anni. Gli stagionali e gli ambulanti erano trattati da schiavi. Erano soprattutto loro a riempire le navi dei migranti. Scappavano dalla fame. Mangiavano pane, castagne, perfino segatura. La carne un paio di volte all’anno. Cercavano di mettere da parte i soldi – tanti – per la traversata e arrivavano in posti dove ad accoglierli trovavano lavori pericolosi che nessuno voleva fare. Meglio di niente.

Molti entravano illegalmente, senza documenti o con documenti falsi. A un certo punto però una commissione parlamentare disse basta, troppi immigrati. Sulla base di teorie scientifiche infondate, tutti quelli che avevano determinate caratteristiche somatiche furono considerati pericolosi, potenziali criminali, selvaggi, stupratori, e accusati di ogni tipo di reato. Queste caratteristiche somatiche coincidevano con quelle di gran parte degli immigrati. L’Immigration act fu approvato il 26 maggio 1924, e di fatto vietò agli italiani di entrare negli Stati Uniti. Rimase in vigore fino al 1952.

Sul New York Times ne ha parlato recentemente Helene Stapinski, una giornalista americana di origini italiane. Una sua bis-bisnonna, Vita Gallitelli, arrivò negli Stati Uniti dalla Basilicata. “Gli italoamericani che oggi approvano gli sforzi di Donald Trump per tenere i cittadini musulmani e messicani fuori dal nostro paese dovrebbero scavare nella loro storia e nel profondo del loro cuore. Siamo solo a un paio di generazioni di distanza dallo stesso razzismo e dallo stesso odio. Se i nostri antenati avessero cercato di venire in America subito dopo il divieto del 1924, non saremmo neppure nati”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 giugno 2017 a pagina 5 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it