25 agosto 2017 11:12

Una sera d’estate al Nourse theatre di San Francisco, Arundhati Roy parla con Alice Walker di libri, di politica e dell’aria che respiriamo.

“Quando nel 1997 è uscito Il dio delle piccole cose e ho vinto il Booker prize, sono finita sui giornali e sulle copertine delle riviste di mezzo mondo. Poco dopo la destra nazionalista è andata al governo in India e a quel punto per me restare in silenzio è diventato un lusso che non potevo più permettermi, perché avrebbe significato approvare le loro scelte. Ci sono situazioni in cui non puoi essere neutrale. Che può fare allora la letteratura? Mi sembra che la velocità e le dimensioni raggiunte dall’industria editoriale stiano in qualche modo addomesticando la narrativa. Ci si aspetta che tu dia interviste in cui ti chiedono di riassumere in sei parole il libro che hai appena scritto. Ma i lettori non vogliono necessariamente degli omogeneizzati per bambini. Per me invece l’idea è riuscire a scrivere un libro sull’aria che respiriamo. Perché nell’aria c’è tutto: il terrore, l’intimità, la politica. E che può fare un romanzo? Un romanzo che non voglia diventare un film, che non voglia essere un libro di storia o una semplice cronaca giornalistica? Ci sono contesti in cui solo la letteratura riesce a dire la verità. Se viaggi o vivi in Kashmir, dove da venticinque anni è in corso la più grande occupazione militare del mondo, non basta riuscire a produrre rapporti sulle violazioni dei diritti umani, articoli di giornale o cataloghi di morti e scomparsi. La letteratura invece può raccontare cos’è davvero il terrore: quello delle persone terrorizzate e quello delle persone che terrorizzano, il terrore dei soldati e quello delle persone che non sanno se i loro figli torneranno a casa domani. Solo un romanzo può fare tutto questo”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 25 agosto 2017 a pagina 5 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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