03 giugno 2015 10:54

Vedo con un po’ di ritardo un bel film svedese di Ruben Östlund, girato sulle Alpi francesi e sudtirolesi, Forza maggiore. È un bel film, disturbante quanto basta, che dice cose vere e sgradevoli soprattutto per chi appartiene al sesso maschile.

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Ha un finale troppo simbolico e rassicurante (l’umanità va avanti, pur con tutta la sua fragilità, e sa ritrovare un senso comune anche nell’insicurezza e nella precarietà, cosciente delle proprie debolezze, in una necessaria, obbligata solidarietà), ma per tutto il film lo spettatore è chiamato a constatare e soffrire di cose che lo riguardano, che ci riguardano.

Östlund è al suo terzo lungometraggio e viene dal documentario sciistico – strana specialità messa a frutto magnificamente in un film tutto sulla neve e con un solo “effetto speciale” quasi all’inizio, che però è alla base della narrazione. Soprattutto è svedese e si presenta come uno dei pochi eredi dell’insegnamento di Ingmar Bergman, il più grande tra i registi di quella cultura, del Bergman che più crudamente ha voluto mettere a nudo le pulsioni profonde degli uomini del novecento, ancora comprensibili agli uomini di oggi nonostante la mutazione in corso.

Sotto la patina della civiltà, un egoismo primordiale, istintivo, che si esprime qui nella viltà del maschio e nella dedizione ai figli della femmina (anche se nella natura, negli animali e dunque anche nei maschi umani può trovare spazio l’istinto di protezione dei propri eredi e della specie).

In breve: una famigliola mediana nei consumi e nelle abitudini, marito moglie e due figli sotto i dieci anni, passa cinque giorni di vacanza sulle Alpi in un mastodontico residence in mezzo a tante altre persone di cui il film si interessa poco, presumendo che somiglino ai membri di quella famiglia, e a una seconda coppia – lui molto più grande di lei – di loro amici. C’è anche un inserviente che parla poco e osserva molto, un po’ troppo simbolica.

Una scena di Forza maggiore. (Dr)

Il primo giorno, una valanga – tenuta sotto controllo ma non abbastanza, e già può impressionarci questo controllo dell’uomo sulla natura a fini mercantili e turistici – si abbatte sulla terrazza dove i nostri quattro fanno colazione insieme a tanti altri amanti della montagna e degli sci. Nella confusione e nella nebulosità del nevischio, l’uomo scappa lasciando sola la moglie con i figli.

Il resto è prevedibile e Östlund ce lo racconta minuziosamente e con intelligenza: le reazioni della moglie, quelle meno esplicite dei figli, quella dell’uomo medesimo sottoposto a una sorta di processo dichiarato o silenzioso da parte dei suoi, che tenta dapprima di minimizzare e che finisce per crollare, al quarto giorno, in una scena di pianto convulso e inarrestabile, cosciente della propria imperdonabile viltà: una scena che può ricordare il finale di un grande film italiano degli anni d’oro di Bergman, L’avventura di Antonioni.

La progressione di questa crisi è raccontata con una precisione psicologica e narrativa memore delle analisi spietate e dolorose di tanti film di Bergman, ma con in più e di diverso l’ambientazione, quell’indifferente natura su cui Bergman infine sorvolava per la sua volontà di un maggiore, a volte quasi insostenibile, scavo nella tragedia, banale e priva di ogni grandiosità, che può nascondersi in ogni tentativo di un rapporto tra le persone, e nel confronto di ciascuno con la propria natura, con il male (non solo in una visione “da nordici e protestanti”) che si annida in ciascuno e che rende così problematico l’incontro autentico con l’altro.

Östlund non ci appare così pessimista sull’uomo come infine era Bergman, i suoi scavi nella pochezza del protagonista (e sulla pochezza morale degli uomini rispetto a quella delle donne) sono meno radicali, attenuati da una volontà di comunicazione e di messaggio (di spiegazione, di fluidità narrativa, di coinvolgimento degli spettatori) alla quale Bergman sapeva resistere, spietato verso se stesso come verso i suoi spettatori. Meno estremo, meno profondo, pure il suo film non è meno doloroso, e la sua maggiore leggibilità da parte del comune spettatore è probabilmente uno dei suoi pregi.

In definitiva, Östlund cerca di salvare il salvabile sapendo quanto sono comuni la precarietà e la fragilità delle nostre esistenze, e riaffermando una qualche fiducia nell’uomo (e soprattutto nella donna) in un’ambigua soluzione che però riafferma il gruppo (l’umanità, l’incertezza e debolezza di cui tutti partecipiamo, la comunanza della sorte) e la famiglia (il nucleo essenziale, la tana protettiva) come delicate necessità.

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