08 settembre 2017 14:48

Dunkirk è un film brutto e detestabile per molti motivi, un fallimento anche spettacolare e anche per lo standard ruffiano ma solitamente efficiente del suo autore-demiurgo, un divo del jet set anglostatunitense come quelli di cui tratta Hanif Kureishi nel suo ultimo e splendido romanzo-farsa. So di irritare i suoi fan e gli pseudocritici del web, vittime consenzienti della stupidità programmata dai poteri (web = ragnatela, in cui il capitale contemporaneo cattura e divora o, al meglio, castra i moscerini che siamo), ma la perdita di senso dell’esperienza, e in questo caso dell’esperienza estetica e prima ancora morale, va combattuta con tutte le (poche) armi che si hanno a disposizione.

Partiamo dal titolo, che i distributori italiani, genìa ipercolonizzata, hanno lasciato in inglese, fingendo di ignorare che la città di cui si parla sta in Francia e si chiama Dunkerque. È legittimo che gli inglesi la ribattezzino, come noi ribattezziamo, per esempio, London in Londra, Paris in Parigi. Ma non siamo nel Regno Unito e lasciare il titolo inglese è un atto di sudditanza altrettanto imbecille che se si ridistribuisse in Italia, che so, L’oro di Napoli chiamandolo L’oro di Naples.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Questo, ovviamente, non è imputabile a Nolan. Il cui film, tronfio e meccanico e noioso, sta in piedi per la musica roboante e invasiva, ossessiva, di Hans Zimmer, più sound che musica. E un regista che si serve della musica per dare unità e pathos a una storia che altrimenti non regge, è, da sempre, un regista che non sa come emozionare, e che di emozioni vere non si intende. Effetti sonori più che effetti speciali, e comunque effetti, trucchi, tecnica, non un linguaggio autonomo e creativo. E siccome è più facile in laboratorio produrre effetti speciali con gli aerei (il cielo) che con le navi (il mare), dagli con le picchiate e con i primi piani degli aviatori, inespressivi perché il loro volto è nascosto da caschi e occhialoni.

S’intuisce che Nolan, in assenza di ispirazione perché in assenza di convinzione, e avendo ben presenti le bravate del maestro numero uno tra i registi tromboni, Steven Spielberg (ben più astuto di Nolan) in Salvate il soldato Ryan, pensasse al suo film come a un oggetto compatto, come a una sorta di sinfonia sonoro-visiva circuente e stordente, dove il flusso dell’azione fosse appena interrotto da personaggi-guida che scandiscono la buriana senza però spezzarla, senza cioè che l’umano riesca a prevalere, sia pure per poco, sul dominio della macchina.

Ma troppo miseri e pretestuosi sono i rappresentanti – diciamo così – dell’umano, anche quando, in mano ad altri registi, affidati a volti di per sé passibili di espressioni e sentimenti. Ed essi, gli umani, sono infatti marionette che esprimono – a uso e gloria dei cittadini odierni dell’ex impero britannico (che comprendeva un tempo quasi tutta l’America del nord) – una morale da Brexit, e nessuna verità, neanche l’ombra di un dubbio sui loro politici e sui loro generali.

A dimostrazione della visione antiumanistica (e antipacifista) di Nolan è a mio parere il modo in cui egli affronta la storia, sottovalutandola, mortificandola con l’uso di una quindicina di barche contro le 3-400 che, di tutti i tipi e misure, dallo yacht al peschereccio, si mossero in una notte dalle coste inglesi per attraversare sessanta chilometri di mare e raccogliere sugli undici chilometri di spiaggia attorno a Dunkerque decine di migliaia di soldati assediati dall’esercito tedesco, mentre miseramente si inabissava l’orgoglio francese nella drôle-de-guerre.

Una storia già raccontata
L’episodio delle little ships resta uno dei più emozionanti della seconda guerra mondiale proprio perché coinvolse persone comuni, civili solidali coi loro soldati, un popolo indignato dalla prepotenza nazista. A questo episodio il cinema e la televisione britannici sono tornati più volte, un episodio secondo solo a quello di Pearl Harbour nel cinema hollywoodiano, alla battaglia di Stalingrado nel cinema russo, all’8 settembre e alla Resistenza nel cinema italiano.

Chi ne cercasse delle immagini rispettose e commosse, può trovare su internet le scene che lo raccontano in La signora Miniver di William Wyler (Stati Uniti, girato nel 1942, meno di due anni dopo la battaglia) o in un film britannico di cui sarebbe bello che qualcuno traesse un dvd, Dunkerque (titolo originale Dunkirk, 1958) di Leslie Norman, erede della grande tradizione del documentario britannico del tempo di guerra, realistico e partecipe, e che esaltava l’eroismo quotidiano contro le mitizzazioni guerresche. Norman non raccontava soltanto quel che accadde a Dunkerque, insisteva anche sul “dietro”, sul dibattito e le decisioni dei militari, mettendole in discussione, non accettando per buone tutte le loro vanterie. Ma al tempo di questo film il Regno Unito non era stato ancora distrutto dalla Thatcher e i laburisti si ricordavano ancora di essere stati una branca del socialismo.

Vale la pena di ricordare un terzo film, che si può vedere per intero in rete. È francese e riporta il punto di vista dei francesi. Venne tratto nel 1964, a colori, da un romanzo molto documentato, pubblicato subito dopo la guerra, di Robert Merle, che era stato soldato a Dunkerque. S’intitola Week-end à Zuydcoote (Zuydcoote era una spiaggia di benestanti, in voga negli anni trenta, quasi alla periferia di Dunkerque) e fu diretto da una vecchia volpe del cinema commerciale, Henri Verneuil, con molti mezzi e con inatteso vigore.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

È forse il suo film migliore, ed è un bel film, con storie di esseri umani e non di macchine, con persone e non macchine, e con un fondo di dichiarato scetticismo nei confronti di quella e di ogni altra guerra, conscio dell’assurdità e mostruosità di tutte quante.

Precisamente il contrario del film di Nolan, la cui maggiore odiosità sta nel cosciente o incosciente progetto di abituare i giovani spettatori a una visione della guerra imbecille e retorica e disumana. Quei giovani spettatori che ben potrebbero, in mano a governanti mascalzoni e a un capitalismo guerrafondaio che domina i mezzi di comunicazione e finanzia i Dunkirk, trovarsi a fungere da carne da macello per le guerre future, come già accade in molte parti del pianeta. E che oggi applaudono i filmacci kolossal che li abituano all’idea del massacro, pensando però che non saranno loro a crepare.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it