26 ottobre 2017 14:34

Josef Koudelka, ormai quasi ottantenne, è uno dei maggiori fotografi viventi, celebre nel mondo per due reportage d’eccezione, sull’invasione russa di Praga nel 1968 (Koudelka è ceco) e sul mondo dei rom. La televisione ceca, nella persona del regista Gilad Baram, gli ha di recente dedicato un film documentario della durata di 76 minuti che viene distribuito dal Lab 80 di Bergamo nelle sale – poche ma buone – i cui gestori amano mostrare a un pubblico esigente opere di valore, non solo di passatempo.

Koudelka fotografa la Terra santa (Koudelka shooting Holy land) si intitola il film di Baram, che è anche un assistente di Koudelka e lo ha seguito in questa impresa, riprendendolo in azione in più posti d’Israele e Palestina, con l’aiuto di Eliza Rurfurt. Vediamo dunque Koudelka in azione lungo il muro, nei villaggi palestinesi, nel deserto, ai check point in cui, ogni volta, gli è d’obbligo dichiarare le sue intenzioni, la sua professione.

Il regista racconta una scena del film


Il film ci racconta in definitiva, senza prediche e comizi, senza dichiarazioni d’odio per nessuno, una condizione: constata una divisione, un’occupazione. Su Israele e Palestina non mancano certamente i materiali, di entrambe le parti, e di più parti di ognuna, né Baram e Koudelka intendono aderire a nessun sistema di propaganda, vogliono che le immagini parlino di per sé, il compito del fotografo è di mostrare (di aiutarci a vedere) e quello del regista di mostrare come il fotografo lavora, e proporre il confronto tra la fotografia e la realtà.

Semplicità e pudore
Le fotografie di Koudelka sono sempre in bianco e nero – un bianco e nero di straordinario nitore e straordinaria raffinatezza – mentre il documentario che mostra Koudelka nel suo lavoro è a colori, e il linguaggio quello abituale al documentario: bianco e nero e colore, una differenza quasi paradossale, se si pensa che nella storia del cinema di ieri il bianco e nero era usato per le storie realistiche e il colore per quelle fantastiche e avventurose mentre oggi accade il contrario, non solo come in questo film, e la realtà è ormai sempre a colori mentre la sua elaborazione artistica più ardita è in bianco e nero.

Il formato delle fotografie è, inoltre, da cinemascope: una visione larga, comprensiva, che prima ancora delle figure umane privilegia l’ambiente, il paesaggio, sia esso il muro, orizzontale e chilometrico, sia le città e i villaggi. Koudelka guarda, fotografa, si spiega, ci dice le sue preferenze e anche un po’ della sua storia con grande semplicità e pudore, più attento al proprio lavoro che a quello di chi lo riprende, che non mette mai in discussione.

Per Koudelka, bisogna cercare di restare diverso, osservatore e testimone, artista, e non soggiacere alla drammaticità delle situazioni

Ci sono certamente molti individui a popolare il film, soldati israeliani, uomini donne bambini palestinesi, e Koudelka si esprime nei confronti di tutti con rispetto (dice perfino, a un certo punto, “se fossi soldato dovrei fare anch’io queste cose”, ed evoca per un attimo l’invasione di Praga, la “cortina di ferro”), saggezza e ironia sono la sua cifra, ma è nelle foto realizzate tagliate scelte che diventa Koudelka, nella lucida passione con cui mostra la bellezza del mondo e la sua sacralità (la bellissima sequenza del deserto: “Non sono un tipo molto spirituale, ma questo posto rende spirituali”), trascurata e messa in discussione dagli uomini, dalla storia, ma anche constata la sua drammaticità, che viene appunto dall’intervento degli uomini, dalla Storia.

Per Koudelka, bisogna “cercare di restare diverso”, di restare osservatore e testimone, di restare artista, di non soggiacere alla drammaticità delle situazioni. Le foto vengono mostrate a lungo, nel silenzio, devono parlare da sole, ma è come se tra il bianco e nero e il colore s’intrattenesse un dialogo, in cui a prevalere è il bianco e nero, la capacità dell’arte di dire di più del documento. Sono le fotografie a dirci di più, e Koudelka insiste, “qui c’è una fotografia che mi sta aspettando” afferma quando individua un “soggetto” significativo, che merita di essere fissato (letto, interpretato) perché può dire di più delle parole e del documento.

E tuttavia l’immagine che può restare più impressa nella memoria è un’immagine tragicamente semplice, quella di Koudelka che fotografa il filo spinato. La divisione, il confine, la prigione.

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