Il film di Stefano Savona sarà proiettato durante il festival di Internazionale a Ferrara, giovedì 4 ottobre alle 20.30 al cinema Boldini e poi sabato 6 e domenica 7 ottobre alle 17.00 al cinema Apollo 2.
La strada dei Samouni di Stefano Savona è il film documentario a lungo metraggio che Cannes ha premiato nella sezione documentario, terzo film premiato della rappresentanza italiana insieme a Lazzaro felice (sceneggiatura) e Dogman (interpretazione maschile). Verrà distribuito in autunno dalla Cineteca di Bologna e molti potranno vederlo, e tanti farebbero bene a non perderlo.
Stefano Savona (Palermo, 1969) ha lavorato assiduamente in gruppi di ricerca di storia orale, in Sicilia, e ha realizzato alcuni memorabili documentari il più noto dei quali è Tahrir, visto in molti festival. È uno di quei registi sempre in movimento e però, come tanti, a caccia del successo e dell’esibizione; è capace di fermarsi a lungo su un progetto, di lavorarci mesi e mesi e mesi ostinatamente. Ha una morale, e ha il talento buono per applicarla al racconto dell’osceno mondo in cui viviamo.
Cita volentieri la battuta di qualcuno dei suoi intervistati: “Un uomo che non sa raccontare non è un vero uomo”. Detesto la scusa ipocrita di tanti editori e scrittori, per esempio, per i quali, con antica e viziosa e ignobile battuta, “una storia esiste, una vita ha senso solo se c’è qualcuno che la racconta”. Non so quanto si possa essere d’accordo. Centrale non è il racconto di ciò che accade, centrale rimane e deve rimanere l’azione, chi agisce e reagisce, chi sta nella storia e non ai suoi margini per documentarla o ricostruirla, ma è evidentemente di primaria importanza che ci sia chi sa vedere, studiare, capire, e sa poi raccontare, trasferire ad altri. Ma solo se lo fa per incitare a nuova azione, se il suo fine è quello di poter cambiare la realtà.
Il modo di operare di Savona è dei più intriganti proprio perché cerca e propone una solidarietà attiva con le vittime della storia, partendo dalla necessità del racconto, della spiegazione, della “lezione”. Forse ogni documentarista è in partenza un po’ giornalista e un po’ educatore – mira a trasmettere conoscenze, per rendere i suoi eventuali spettatori meno passivi di fronte alle notizie, quelle pur sempre raffreddate che ci propina la carta stampata o quelle pur sempre manipolate che ci propinano le televisioni e internet, sperando e sognando forme di solidarietà un po’ più radicate di quelle della generica simpatia.
Ma anche ammesso che il racconto sia pur sempre indispensabile alla comunicazione, che sia insomma indispensabile a una “presa di coscienza” che possa trasformarsi in solidarietà attiva, il racconto ha il compito di “mettere le carte in tavola” nel rispetto della verità; deve tener conto dei punti di vista delle parti in causa, ma deve anche schierarsi, deve stare dalla parte delle vittime, sempre.
Il caso di La strada dei Samouni è per molti aspetti esemplare. Nel gennaio del 2009, durante l’operazione militare israeliana mirata a stroncare ogni forma di ribellione nel minuscolo territorio di Gaza, in una sorta di rifugio di cui era proprio Israele a dover assicurare la protezione venne decimata una famiglia palestinese, i Samouni, in modo crudelmente gratuito poiché non stavano opponendo nessuna forma di resistenza. Savona riuscì a entrare a Gaza a strage avvenuta, entrando fortunosamente dalla frontiera egiziana che era la più scoperta, e raccolse molto materiale, ma non sufficiente a farne il film che, tanti anni dopo, è diventato.
Come raccontare, oggi, quell’evento, che portò a una reazione quasi mondiale di critica all’esercito e al governo israeliani e a un forte dibattito interno all’opinione pubblica di quel paese (c’era stato anche qualche militare che durante l’azione si era rifiutato di obbedire agli ordini dei superiori, e il film non lo tace)? Come, in definitiva, documentare e al contempo “fare storia”, quando i fatti da raccontare sono accaduti molti anni prima?
Al centro c’è il punto di vista delle vittime, il loro racconto, la storia dei loro morti, il loro lutto
C’è nel film un presente fatto di interviste, con le memorie dei sopravvissuti, e girato sui luoghi dell’azione. Le memorie, con le riflessioni, con i giudizi, che riguardano anche i palestinesi, i politici palestinesi e il loro agire da politici, poco limpido anch’esso. C’è al centro il punto di vista delle vittime, c’è il loro racconto – c’è la storia dei loro morti, c’è il loro lutto. Con le domande sugli israeliani, con le domande sui palestinesi. C’è lo scrupolo del punto di vista degli israeliani, consegnato all’uso di “effetti speciali” (che sembrano in verità assai semplici), gli “obiettivi” visti su computer dall’alto, dagli aerei bombardatori. E sono forse queste le scene in verità più agghiaccianti dell’intero film, la macchina della guerra e della messa a morte di innocenti.
E c’è la ricostruzione dell’azione dal punto di vista del clan dei Samouni: ma se non ci sono documenti, come supplire? Per riuscirvi, Savona ha chiesto l’aiuto di un grande disegnatore, Simone Massi, e di un gruppo di suoi colleghi/colleghe o allievi/allieve di scuole del disegno animato che aiutassero Massi ad animare le sue immagini, il cui complesso e studiato bianco e nero dice quanto non era possibile dire se non con speaker o narratori esterni, e dunque privando quelle scene – centrali! – della loro drammaticità ed evidenza.
Lo ieri e l’oggi, un oggi fatto di macerie e di ricordi, la cui insicurezza si respira nelle immagini dell’oggi, che rimandano all’insicurezza di ieri ma che ci dicono anche che la vita continua, che ancora ci si innamora e si fatica e si lotta, e si mettono al mondo figli e si discute di sé e del mondo ma soprattutto della comunità di cui si è membri e delle sue difficoltà, precarietà. Indignazioni, domande, disperazioni si contrappongono o mescolano in una sorta di sinfonia che ha movimenti alternati e ritornanti, con i tre controcanti formati dall’oggi filmato, dallo ieri disegnato – entrambi dal basso, a livello della terra e della società – e, terzo, dalla fredda astrazione militare, dalla gelida e mobile geometria della morte dall’alto, immagini che trasformano le persone reali in bersagli, in punti mobili da fermare una volta per sempre, definitivamente, con il ricorso alle armi.
Sono però i bambini il vero fulcro del film, o almeno quello che a noi interessa considerare tale. Sono le vittime per definizione, colpiti anche loro come sono colpiti i loro genitori e parenti, sono gli innocenti assoluti, gli innocenti per definizione, ma sono anche i portatori di qualche speranza, ché la vita continua nonostante la morte, e se si è vivi si può ancora non solo soffrire e subire, si può anche cercar di capire, si può provare a cercare la difficile strada di quell’insieme di cose che c’è chi caparbiamente si ostina a chiamare Pace.
Il film di Stefano Savona sarà proiettato durante il festival di Internazionale a Ferrara, giovedì 4 ottobre alle 20.30 al cinema Boldini e ancora sabato 6 e domenica 7 ottobre alle 17.00 al Cinema Apollo 2.
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