14 novembre 2018 17:10

La Cineteca di Bologna distribuisce meritoriamente, nelle poche sale che li accolgono, alcuni classici capolavori del cinema novecentesco, epoca in cui il cinema era rappresentato da migliaia di opere destinate, prima delle nouvelles vagues, a un pubblico di massa. Molte erano di altissimo livello, opere di grandi registi-artigiani che non volevano essere autori con la a maiuscola ma di fatto lo erano, ed erano la dimostrazione di una grande professionalità in sintonia con l’evoluzione dei tempi. Questi autori erano attenti a dare a tutti gli spettatori – e non solo a un’élite – un’occasione che fosse insieme di divertimento e di stimolo alla riflessione e, talvolta, al cambiamento.

Tra i primi nomi che mi vengono in mente ci sono John Ford, Alfred Hitchcock, Mario Monicelli… La novità era comunque enorme, quella di un’epoca uscita da una seconda guerra mondiale che aveva fatto sessanta milioni di morti e, con Auschwitz e Hiroshima, aveva dimostrato che l’uomo aveva ormai la possibilità di annientare, grazie al progresso tecnologico, ogni forma di vita.

Si parlava spesso di apocalisse, in quegli anni, ma anche dei modi di contrastarla, e si sperava in un’epoca nuova, di riscatto dei popoli e di pace tra loro, di decolonizzazione e di rivoluzione, di progresso sociale e non solo economico.

E se i giovani registi inventavano modi più diretti di narrare, di esplorare la realtà, critici verso il “cinema di papà”, c’erano dei registi spericolati che mettevano in discussione quasi tutto, in testa Roberto Rossellini e altri che operavano in una continuità di grandi artisti, spesso eredi delle avanguardie storiche, in dialogo stretto con i grandi scrittori e pensatori e artisti loro contemporanei, dei quali non erano secondi. I Buñuel, Renoir, Bresson, Kurosawa, Mizoguchi, e poi i Fellini, Antonioni, Kazan, Satyajit Ray, Wajda, Tarkovskij, Kubrick, erano autori a tutto tondo, non inferiori, nella considerazione della critica e del pubblico, ai grandi nomi di altre arti: Picasso, Klee e Bacon, Stravinskij, Šostakovič e Ravel, Tanizaki, Pasternak, Camus, Auden, Faulkner, Woolf, Morante, Plath e Compton-Burnett, Pirandello, Mejerchold, Beckett, Grotowski, Beck e Bene eccetera.

La tristezza dell’epoca in cui viviamo è che non si impara dallo ieri per andare avanti ma neanche ci si ribella ai padri

Un’epoca davvero straordinaria. C’era a caratterizzarla qualcosa che era appartenuto a tutti i tempi, il senso di una continuità nonostante le rotture generazionali, un passaggio del testimone da “padri” a “figli”, che era evidente anche quando i figli si ribellavano ai padri, tuttavia rifacendosi alle lezioni degli zii, o magari dei nonni dato che la cultura, insegnavano gli antropologi, si trasmetteva sempre da zii a nipoti, da nonni a nipoti, perché i figli, in ogni società, per crescere dovevano distinguersi dai padri o ribellarvisi.

La tristezza e l’angoscia dell’epoca in cui viviamo è che questo non succede più, non si impara dallo ieri per andare avanti ma neanche ci si ribella ai padri, bloccati con il nostro consenso in unico oppressivo presente nato da una radicale mutazione, da un passaggio di epoca decisivo.

Il postmoderno esiste e ha cambiato tutto, ma ha anche appiattito tutto, perché l’arte non dialoga più con lo ieri, sia pure conflittualmente, e non propone alcuna novità qualora non accetti di agire dai margini più faticosi, più isolati. Quando dialoga, lo finge, con rarissime eccezioni, perché si serve del passato non come di una lezione da innervare nel presente, ma come di una semplice riserva di citazioni nobilitanti. Il tentativo di fare il “nuovo” è spesso grottesco, per esempio proprio in certi registi nordici e scandinavi, come i ridicoli “eversori” Ruben Östlund, Lars von Trier, Thomas Vinterberg, parodie al pari del nostro Paolo Sorrentino.

Grande artista tout court
Ingmar Bergman partiva invece da una tradizione e la rinnovava, le dava una vitalità nuova. Questo è particolarmente evidente in Il settimo sigillo, il film che, con Il posto delle fragole e Sorrisi di una notte d’estate lo impose mondialmente nella seconda metà degli anni cinquanta come un grande artista tout court.

Forte era il suo rapporto con la tradizione, ma forte anche la sua novità, il suo modo di servirsene guardando all’oggi. Ha lavorato come sceneggiatore con il grande Alf Sjöberg, regista teatrale come Bergman si apprestava a essere. Nel Posto delle fragole chiama a sostenere il ruolo principale del vecchio professore umanista nientemeno che Victor Sjöström, grande maestro del cinema muto svedese e internazionale; in Sorrisi di una notte d’estate omaggia in tutta evidenza l’altro maestro del muto, Mauritz Stiller, autore di commedie molto borghesi e passabilmente ciniche.

Nel Settimo sigillo si spinge anche oltre, rifacendosi alla tradizione popolare delle pitture su legno e delle decorazioni-narrazioni presenti nelle chiese protestanti dei contadini e dei pescatori della Dalecarlia, una tradizione già omaggiata da Rune Lindström, un grande attore comico autore di una sorta di “sacra rappresentazione” tuttora recitata tradizionalmente in Svezia in un luogo fisso e a data fissa, che si chiamava La via verso il cielo e che fu tradotta in film proprio da Sjöberg e con Lindström protagonista, arrivata in Italia con lo strambo titolo di Strada di ferro.

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Il settimo sigillo è davvero una “sacra rappresentazione”, una “via verso il cielo” che coinvolge più personaggi attorno alla partita a scacchi – altro topos della tradizione e della favolistica dal medioevo in avanti – tra la Morte e un cavaliere, reduce amaro e disilluso da una crociata che sogna il ritorno alla casa e agli affetti. Se vincerà la partita, questo potrebbe avvenire, ma egli è ben cosciente che così non sarà. Nel gioco sono coinvolti altri personaggi, un fabbro e sua moglie, un attore, una bambina condannata al rogo in quanto strega, un avventuriero mascalzone e una coppia di giocolieri con il loro bambino. Saranno loro i soli a sopravvivere, i soli che non faranno parte della danza macabra guidata dalla Morte in un finale macabro e visionario. Essi la vedono da lontano, affermando una possibilità di vita per i puri, per i semplici, per i buoni.

Non è solo alla storia del cinema prima di lui che Bergman si riallaccia, ma alla cultura popolare della Svezia, alla cultura religiosa della riforma, alla più intima essenza della cultura svedese e scandinava, attento a far sì che il pubblico dell’anno in cui il film fu girato e poi diffuso quasi in tutto il mondo potesse intenderne gli elementi, ma anche con la precisa volontà di meravigliarlo e affascinarlo. Cultura e spettacolo insieme, l’oggi che ridà vita al passato, restituendo al cinema il suo originario potere di sbalordire ma, insieme, di conoscere e di confrontare, di far rivivere e ri-conoscere. Lo stupore e il pensiero come fossero una sola cosa, la stessa cosa.

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