26 marzo 2019 14:52

Quando il 25 marzo il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che sostiene la sovranità d’Israele sulle alture del Golan, il grido di protesta che si è levato ha ampiamente superato i confini del mondo arabo. È stato detto che la sua azione contravviene gli accordi internazionali sull’“inammissibilità dell’acquisizione di un territorio con la forza”. Ovvero, che è stata un’azione di conquista. Sfortunatamente si tratta solo di princìpi, non di un diritto internazionale ferreo davvero in vigore.

Le alture del Golan, che appartenevano alla Siria, fanno parte dei territori conquistati da Israele durante la guerra del 1967. In virtù degli accordi di pace del 1979 Israele ha restituito all’Egitto buona parte dei territori che gli aveva sottratto (tranne la Striscia di Gaza), ma oggi continua a occupare i territori che ha strappato a Giordania e Siria 52 anni fa. L’unica parte che ha effettivamente annesso ai sensi del diritto israeliano sono, tuttavia, le alture del Golan.

Dal punto di vista di Israele la questione è chiusa dal 1981, anche se nessun altro paese al mondo ha accettato quest’annessione, neppure il suo più grande alleato, gli Stati Uniti. Hanno tutti continuato a riferirsi ai “territori occupati”, che includono la alture del Golan, così come vengono descritti dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti. Israele è andata dritta per la sua strada, e la questione legale è stata tenuta in sospeso per altri 38 anni.

L’unico motivo per cui oggi Trump ha “riconosciuto” le alture del Golan come un territorio israeliano è dare una piccola spinta elettorale al suo caro amico, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, oggetto di accuse di corruzione che potrebbero costargli le elezioni il prossimo 9 aprile. La cosa non cambia la situazione legale agli occhi del resto del mondo, né rende più sicuro il controllo del territorio da parte d’Israele.

Ciò che garantisce la posizione d’Israele sulle alture del Golan è la sua schiacciante superiorità militare, e lo stesso vale per tutti i territori occupati al mondo. Esiste un testo nella carta dell’Onu (articolo 2) che impone a tutti i paesi affiliati di non ricorrere “alla minaccia o all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un qualsiasi stato”, ma si tratta di una pia illusione, non di una legge fatta universalmente rispettare.

Quando c’è un’azione di conquista all’occupato è richiesto, se possibile, di reagire da solo, come ha fatto il Regno Unito quando l’Argentina ha invaso le isole Falkland. La vittima riceverà probabilmente un minimo di copertura legale da parte del diritto internazionale, ma è improbabile che ottenga un sostegno militare, a meno che non sia nell’interesse di altri paesi farlo.

Simili interessi erano effettivamente in gioco durante la guerra del Golfo del 1990- 1991, quando l’Iraq invase il Kuwait. Per motivi strategici (ovvero il petrolio), molti paesi arabi e occidentali offrirono volontariamente le proprie forze militari per resistere a tale conquista, ottenendo peraltro il sostegno legale dell’Onu, per quel che può contare.

Ma quando è una grande potenza a invadere, come la Cina in Tibet (1950), l’Unione Sovietica in Afghanistan (1979) o gli Stati Uniti a Grenada (1983), a Panama (1989) o in Iraq, l’Onu è paralizzato dai veti del Consiglio di sicurezza, e la maggior parte degli altri paesi non osa intervenire. Gli invasori non hanno alcuna copertura legale, ma questo non li ferma.

Quando a invadere sono paesi che non sono grandi potenze, come nel caso della presa di Timor da parte dell’Indonesia, o l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco, entrambe avvenute nel 1975, le vittime non possono godere di alcun aiuto esterno a meno che qualche grande paese s’interessi al caso. O a meno che la popolazione locale sia in grado di organizzare una guerriglia abbastanza duratura da spingere il conquistatore a rinunciare all’impresa e a tornare a casa. A Timor la cosa è riuscita, nel Sahara Occidentale è invece fallita.

Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un importante tentativo di ridurre il ruolo della forza e di rafforzare lo stato di diritto negli affari internazionali. Il conflitto aveva spaventato a tal punto i governanti del mondo, che questi erano pronti a valutare delle significative modifiche alle loro abituali modalità di governo. Entro certi limiti, la cosa è riuscita. Viviamo infatti nell’era più pacifica della storia umana.

Ma questo non significa che sia del tutto pacifica, e il progetto al quale tutti i paesi hanno aderito nel 1945 è ancora, in buona parte, un cantiere aperto. A Trump non dispiacerebbe mandarlo del tutto a monte, visto che lo considera solo uno dei tanti aspetti della “globalizzazione”, ma ha poche possibilità di riuscirci. Semplicemente non ha l’influenza necessaria.

Il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan da parte di Trump rende ipocrita la campagna parallela con cui gli Stati Uniti cercano di mettere fine all’annessione russa della Crimea. Ma quest’ultima campagna non stava comunque ottenendo alcun successo.

Analogamente, non ha danneggiato lo strombazzato piano di pace di Trump per il conflitto israelo-palestinese, perché anche questo non stava andando da nessuna parte. Nel mondo arabo tutti sapevano già che Trump era totalmente fedele a Israele, se non altro perché questo è il modo di ottenere i voti dei cristiani evangelici degli Stati Uniti. Nessuno si aspetta niente dal suo “piano di pace” per il Medio Oriente, ammesso che questo veda mai la luce. In una scala di orrori da uno a dieci, tutto questo episodio merita un due.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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