17 giugno 2020 13:31

Mentre i paesi europei e nordamericani emergono dall’isolamento e cominciano a cercare di ricostruire le loro devastate economie, a destare preoccupazione sono soprattutto i posti di lavoro.

Negli Stati Uniti e in Canada la disoccupazione è oltre il 13 per cento, il livello più alto dalla seconda guerra mondiale. Se non fosse per i sussidi che permettono a un quinto della popolazione attiva di godere di congedi pagati, in Europa la percentuale di persone senza lavoro sarebbe simile, se non superiore. Non può andare avanti così per sempre. Per questo è in corso una disperata ricerca di soluzioni per salvare posti di lavoro – e si continua a parlare della “settimana lavorativa di quattro giorni”.

Come per l’altra formula magica che viene proposta, il reddito di base garantito, la settimana lavorativa di quattro giorni è un’idea di cui si parla da molto tempo. L’attuale emergenza ha dato a entrambe le idee nuova linfa, e nessuna delle due è neanche lontanamente radicale o estrema come può apparire.

Meno di un secolo fa tutto il mondo industrializzato è passato dalla vecchia settimana lavorativa di sei giorni (sabato incluso) a una di cinque giorni, con lo stesso salario, senza sconvolgimenti politici né significativi cali di produzione. Quindi perché non farlo di nuovo, condividere il lavoro e salvare un sacco d’impieghi?

Obiettivi diversi
Perché non funziona così. La settimana lavorativa di quattro giorni non ha per obiettivo quello di condividere il lavoro. Il suo scopo è fare in modo che le persone che già hanno un impiego condensino la stessa quantità di lavoro in quattro giornate lavorative da dieci ore, invece che in cinque da otto ore ciascuna, oppure lavorino in maniera più “smart” in modo da poter svolgere la stessa quantità (o più) di lavoro in quattro giornate da otto ore.

La settimana da quaranta ore in quattro giorni è l’unica possibilità offerta alla maggior parte dei lavoratori impiegati nella catena di montaggio o in altri compiti fisici ripetitivi. Le giornate lavorative da dieci ore sono ancor più dure di quanto sembrino, ma la contropartita sono fine settimana da tre giorni, e alcune persone sono disposte a pagare il prezzo.

Se tutti accettano, la dirigenza può spegnere lo stabilimento per un giorno in più, risparmiando sull’elettricità. Se accettano solo alcuni, allora la dirigenza ha il grattacapo di dover programmare alcuni turni da dieci ore e altri da otto, oltre al problema degli errori che potrebbero accumularsi quando i lavoratori esausti si avvicinano alla fine di un turno da dieci ore. E senza risparmi sulla bolletta elettrica.

Nonostante ciò, questo dovrebbe rendere la forza lavoro più felice, e quindi più efficiente e produttiva. Esistono già alcuni esempi di questo tipo di lavoro su quattro giorni in ogni paese industrializzato, e oggi ne stanno parlando le prime ministre di Finlandia e Nuova Zelanda. Nessuna delle due, tuttavia, propone d’imporlo su scala nazionale, e nessuno suggerisce che la cosa creerà più posti di lavoro.

Il lavoro potrebbe essere svolto più rapidamente se tutti fossero motivati a concentrarsi sugli aspetti utili

La settimana da quattro giorni è una soluzione più semplice e allettante per le persone con impieghi amministrativi o commerciali, perché tutti sanno che nei lavori d’ufficio si perde un sacco di tempo: social network, email inutili, incontri lunghi e noiosi e così via. Il lavoro potrebbe essere svolto molto più rapidamente se tutti fossero motivati a concentrarsi sugli aspetti che sono davvero utili, ignorando tutto il resto.

Quindi bisogna motivare le persone. Dire loro che possono passare a quattro giornate da otto ore alla settimana, percependo lo stesso stipendio, se riescono a svolgere lo stesso lavoro. E lasciare che siano loro a scoprire come. Se non ci riescono, si torna alla vecchia routine da cinque giorni.

Miracolosamente, le persone ci riescono quasi sempre. In molti casi, in realtà, la produttività addirittura aumenta: i lavoratori felici lavorano meglio. La settimana di quattro giorni è un’ottima idea e forse il suo momento è arrivato, ma non è una panacea. Le aziende non assumono mai un numero più alto di persone solo per condividere il lavoro.

Solo un acceleratore
Quindi cosa potrebbe permettere di condividere il lavoro attualmente disponibile? Il congresso degli Stati Uniti ebbe una grande idea nel 1938, quando approvò il Fair labor standards act, che imponeva ai datori di lavoro di pagare gli straordinari il 150 per cento del salario orario ordinario, ogni volta che venivano superate le quaranta ore di lavoro a settimana.

L’idea era spingere i datori di lavoro ad assumere più persone. Se avevano quaranta dipendenti che lavoravano cinquanta ore alla settimana, avrebbero dovuto pagare degli straordinari a ciascuno di questi per le ultime dieci ore. Quindi perché non assumere semplicemente altre dieci persone e risparmiare su tutti quegli straordinari? All’epoca funzionò piuttosto bene, ma oggi non funzionerebbe. Non si assumerebbero più persone: si aumenterebbe l’automazione.

Il coronavirus è solo un acceleratore. Il vero problema dell’impiego dagli anni novanta è l’automazione, che ha fagocitato buoni posti di lavoro, sostituendoli con altri mal pagati e precari, o addirittura senza produrne alcuno. Negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2010 sei milioni di buoni posti di lavoro nell’industria manifatturiera sono stati cancellati dall’automazione, e questo ha contribuito in modo determinante all’elezione di Donald Trump nel 2016.

La pandemia sta accelerando il processo, trasferendo più posti di lavoro online, soprattutto nel settore delle vendite (un tipo diverso di automazione), e fare esperimenti con le ore di lavoro o con il salario minimo non lo fermerà. Quindi cosa rimane? Forse un reddito di base garantito aiuterebbe, ma questa è un’altra storia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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