06 novembre 2015 14:20

Di Mediterranea, il film di Jonas Carpignano che stasera apre a Roma il Medfilm festival (cinema Savoy, ore 20.30), quasi tutto è già stato scritto durante l’ultimo festival di Cannes, dove brillava tra le proposte migliori della Semaine de la critique. Storia magnificamente girata, senza un filo di retorica e con molta ironia, di ordinari migranti africani che attraverso l’ordinaria via crucis del viaggio nel deserto e in mare approdano nella piana di Gioia Tauro e sperimentano le spine (molte) e le rose (poche) di una difficile integrazione, il film si è imposto per la sua forza e per il suo tempismo nell’Europa scossa dall’onda migratoria dei mesi scorsi. Primo lungometraggio di uno splendido trentenne (già vincitore per il miglior corto a Venezia 2013 con ’A Chjana e a Cannes 2014 con ’A Ciambra), ha definitivamente consacrato l’autore tra i giovani talenti più promettenti del cinema indipendente negli Stati Uniti. Di qua e di là dall’oceano, la biografia del regista ha funzionato da ciliegina sulla torta. Figlio meticcio di padre italiano operaista traslocato alla New School di New York dopo i fasti del sessantotto e di madre afroamericana con radici alle Barbados, Jonas è nato e cresciuto nel Bronx con una sensibilità congenita per le discriminazioni razziali. Nipote d’arte (il nonno paterno, Vittorio Carpignano, era il produttore dei Caroselli negli anni sessanta, lo zio, Luciano Emmer, tenne a battesimo Mastroianni in Domeniche d’agosto), dice di sé di essere cresciuto a pane e cinema italiano. Allievo della Wesleyan university, lavorava per Spike Lee sul set di Miracolo a Sant’Anna quando, nel 2010, scoppiò la rivolta dei migranti neri a Rosarno, saltò d’istinto su un treno per andare a dare un’occhiata e capì che quello era il suo nuovo set, di cinema e di vita. Da allora, tra un viaggio e un festival, vive a Gioia Tauro felicemente immerso nel microcosmo glocal di calabresi perbene e permale, immigrati sfruttati nella raccolta delle arance, rom e giovani prostitute nordafricane ed esteuropee che è diventato lo scenario dei due corti prima, di Mediterranea poi.

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Perché dunque torno sul film, oltre che per invitare chi può ad andare a vederlo stasera, nella proiezione una tantum del Medfilm festival? (Il film, produzione franco-tedesca-americana, è in uscita in vari paesi europei e negli Stati Uniti, ma è tuttora senza distributore in Italia, come capita alle produzioni indipendenti). Perché ho avuto la fortuna di vederlo non a Cannes ma a Gioia Tauro, “la proiezione per me più importante” come dice il regista, e voglio parlare non tanto del film quanto dei miracoli che un film, nel farsi, può fare. Del film, o meglio docufilm, dirò solo che a me pare un caso assai riuscito di innesto di un linguaggio cinematografico materialista sulla storia vera di Koudous Seihon, un migrante del Burkina Faso che recita se stesso come fosse un attore sperimentato; che l’intero cast, tutto preso direttamente dalla strada, è la dimostrazione che l’energia e il desiderio di un gruppo di giovani determinati può più della migliore scuola di recitazione; che la differenza tra questo e altri film sui migranti la fanno l’empatia (la cinepresa gira con i “loro” occhi che guardano “noi”, e non viceversa), l’ironia (nessuna retorica, nessuna santificazione, nessuna vittimizzazione), il fuoco sulla singolarità delle storie e non sull’impatto statistico della “questione immigrazione”, sull’energia vitale e non sulla minaccia invasiva che viene dall’altra sponda del Mediterraneo; e infine, o forse per prima, la full immersion del regista sia nella piana di Gioia sia nell’odissea dal Burkina Faso all’Italia (Carpignano l’ha sperimentata tutto di persona, a rischio di sé, prima di girare nel deserto marocchino e sul gommone in mezzo al mare).

Uno specchio trasfigurante

Ma quello che di Mediterranea colpisce di più sono altre due cose. La prima è lo sguardo, finalmente inedito e finalmente giusto, su un pezzo del sud d’Italia, finalmente visto come un pezzo del mondo globalizzato e delle sue contraddizioni e non come un residuo arcaico di un’arretratezza invincibile. Nessuna “calabresità” antropologica come in Anime Nere di Munzi (o come la “napoletanità” dell’ultimo film di Gaudino), ma un’implosione di tempi, spazi e culture tra le due sponde del Mediterraneo; nessun dialetto “nativo” o “straniero”, ma un meticciato di lingue, accenti, ritmi e musiche (le canzoni cult di Rihanna riscaldano le serate nel ghetto dei neri) che forano i confini artificiali delle nazioni e dei continenti; nessuna mafia pervasiva e da cassetta ma, più aderente alla realtà, una presenza violenta latente che scatena la ribellione dei corpi e delle anime (quando i neri rovesciano il tavolo e bruciano tutto, come nel Bronx di cinquant’anni fa). Ci voleva lo sguardo esterno di un giovane cresciuto nel cuore dell’Impero per liberare la periferia meridionale italiana dagli stereotipi culturali che la imprigionano più dei redditi bassi o della disoccupazione.

E ci voleva la passione scatenata per il cinema di un giovane allievo del Sundance Lab per mettere all’opera un’energia visionaria che nel descrivere un pezzo di mondo contemporaneamente lo trasfigura e lo trasforma. Rosarno e la piana di Gioa Tauro sono una realtà complicata, dove lo sfruttamento economico della forza lavoro nera necessaria all’economia degli aranceti si sovrappone alla diffidenza xenofoba senza vincerla, e questa contraddizione si è incistata su un territorio che la rappresenta plasticamente: di qua la città con gli indigeni, per sfondo il porto e i suoi traffici; di là il ghetto dei maschi neri con il campo di tende “civili” ottenuto dopo la rivolta, circondato dalle tende abborracciate dei nuovi arrivati, senza fogne e senza speranza; tutt’intorno la cintura delle lavoratrici del sesso, terra di confine e di scambio tra maschi nativi e maschi immigrati; poi ancora ’a ciambra, la comunità rom dove i bambini, come il memorabile Pio nel film, vivono riciclando telefonini e lettori di mp3; e a fare da ponte tra il ghetto e la città donne che cucinano per i migranti, assistenti sociali che insegnano l’italiano, volontari che organizzano l’accoglienza. Raccontare questa stratificazione non era facile; ma più difficile era scuoterla, smuoverla, farla saltare. Jonas Carpignano li ha messi tutti a lavorare su un set, neri e bianchi, indigeni e migranti, vecchi e bambini, prostitute e donne virtuose, e Mediterranea non li ha solo rappresentati: li ha cambiati. Alla proiezione del Politeama sul corso di Gioia Tauro, poche sere fa, c’erano tutti, buoni e cattivi, e si guardavano divertiti nello schermo come in uno specchio trasfigurante. È il piccolo grande miracolo che un film può fare, quando il cinema salta e diventa pratica performativa e trasformativa del reale.

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