14 febbraio 2019 13:24

Il governo sovranista, che straparla di sovranità nazionale un giorno sì e l’altro pure e novantanove volte su cento a sproposito, sigla una cosiddetta intesa con le regioni più ricche dell’Italia del nord che fa letteralmente a brandelli lo stato nazionale. Il medesimo governo sovranista, che straparla di sovranità popolare un giorno sì e l’altro pure e cento volte su cento a sproposito, pretende di varare la suddetta intesa alla chetichella, scavalcando il parlamento ed evitando, con la complicità della maggior parte dei media mainstream, qualunque interferenza del parere del popolo e dell’opinione pubblica.

La Lega di Matteo Salvini, che tanti osservatori si sono affannati a benedire come un partito finalmente nazionale che archivia l’arcaica Lega nord di Umberto Bossi e i suoi folcroristici riti con l’ampolla, sta per realizzare quella secessione del nord che Berlusconi e Fini non consentirono a Bossi di realizzare. Lo scellerato “contratto di governo” – un pezzo di carta privato del quale avremmo dovuto solo ridere se fossimo ancora la patria del diritto come si continua a dire – si rivela per quello che è: un patto per unire con la colla del rancore un paese non più solo storicamente, bensì istituzionalmente diviso, soldi al nord e sussidi al sud, senza nemmeno la retorica unitaria che ha coperto un secolo e mezzo di rapina capitalistica del nord ai danni del sud.

Infine, il movimento che ha fatto dei “cittadini” il suo brand e il suo target si appresta a dare il suo placet a una cittadinanza gerarchizzata, di serie A al nord e di serie B al sud (senza contare quella di serie Z negata ai migranti), che fa strame una volta per tutte del principio costituzionale di uguaglianza e dello stato sociale, e ha l’unico merito di ridicolizzare definitivamente lo slogan “prima gli italiani” correggendolo in “prima gli italiani ricchi”.

È questo il succo delle bozze fin qui clandestine sulla cosiddetta “autonomia differenziata” del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia-Romagna che arrivano oggi in consiglio dei ministri. Le quali bozze, per dirlo in due parole e senza perdersi nella nebbia depistante dei tecnicismi, fanno due cose. Primo, conferiscono alle tre regioni interessate il profilo di altrettanti stati, dando loro piena sovranità su tutte le materie fin qui concorrenti fra stato centrale e regioni: fisco, istruzione, ambiente, salute, ricerca, beni culturali, infrastrutture, protezione civile, energia, comunicazione, previdenza complementare. Secondo, demoliscono in radice l’impalcatura dello stato sociale, sostituendo il criterio dell’accesso universale ai diritti fondamentali con l’erogazione di servizi parametrati al gettito fiscale di ciascuna regione.

I diritti non sono più beni universali ma performance relative, disponibili a chi ha di più e chi ha di meno si arrangi

In altri termini: a gettito fiscale più alto, standard più alti dei servizi dovuti ed erogati, e viceversa. I diritti non sono più beni universali ma performance relative, disponibili a chi ha di più e chi ha di meno si arrangi. Scuole, programmi scolastici, insegnanti, ospedali, medici, treni, autostrade: dipende da dove abiti e da quante risorse fiscali il tuo territorio può vantare e gestire in proprio. La trentennale e infinita transizione italiana arriva finalmente al punto, che è lo stesso da cui a ben guardare era partita: la secessione dei ricchi, come titola il prezioso libro di Giancarlo Viesti scaricabile gratuitamente sul sito della casa editrice Laterza.

Preparato nell’ombra, non è detto che il marchingegno trovi la luce nei tempi fulminei vagheggiati dalla Lega e dai suoi ministri. Per altrettanto ignobili ragioni, la transizione entrerà più probabilmente nel gioco di ricatti, veti, moratorie e scambi incrociati che regge, si fa per dire, l’alleanza gialloverde.

Per l’intanto, si segnalano tre effetti collaterali della vicenda. Il primo: si deve alle tanto innominabili e denigrate élite intellettuali (economisti, giuristi, centri studi come il Centro per la riforma dello stato e l’Osservatorio per il sud) se l’argomento è uscito dall’ombra, ha penetrato la cortina di ferro dei media, e sta diventando oggetto di discussione pubblica e di mobilitazione. Le regioni meridionali si svegliano da un sonno colpevole (la Campania scende sul piede di guerra, la Calabria chiede almeno un dibattito parlamentare, la Puglia, inizialmente sedotta da un supposto “buon uso” dell’autonomia, ci ripensa e dice no) e in parlamento spunta un fronte di opposizione targato LeU e, a quanto pare, incoraggiato dal futuro segretario del Pd nonché governatore del Lazio Zingaretti. Anche se va detto che nel tempo lungo dell’incubazione della secessione dei ricchi è appunto il Pd quello che va come al solito ringraziato. Non solo per la sua acquiescenza di oggi ai desiderata dell’Emilia-Romagna, o per i preliminari delle “intese” siglati ieri l’altro dal governo Gentiloni. Ma per le sue oscillazioni, approssimazioni e confusioni trentennali sulle questioni del federalismo e della sussidiarietà, nonché per la sciagurata riforma del 2001 del titolo V della costituzione fatta già allora (e per giunta a maggioranza, come le riforme costituzionali non vanno mai fatte) per inseguire la Lega e i suoi elettori.

Infine, il ruolo del Quirinale. Il recente richiamo di Mattarella a “un’equilibrata distribuzione di competenze e responsabilità tra i livelli di governo” è certo un monito importante contro la dissoluzione dell’unità repubblicana, ma non basta. Ci sono circostanze in cui la funzione di “guardiano della costituzione” dell’alto colle diventa effettiva o perde credibilità. Siamo in una di queste circostanze, per l’autonomia differenziata e per altri provvedimenti del governo in carica a cominciare dal decreto sicurezza, e sarà bene prenderne atto.

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