05 giugno 2016 11:10

Al centro di piazza Micheli, nei pressi del porto di Livorno c’è un monumento chiamato dei quattro mori.

In origine i quattro mori, ovvero quattro schiavi di religione musulmana, non erano presenti nel complesso monumentale. C’era solo Ferdinando I. La statua, tutta in marmo bianco, venne commissionata nel 1595 a Giovanni Baldini. Lo scopo era naturalmente quello di glorificare il granducato di Toscana. Era stato proprio Ferdinando a dare lustro a Livorno (pur non essendone lui il fondatore) facendola diventare un porto tra i più influenti del Mediterraneo e una piazza tra le più rinomate contro i pirati barbareschi. Ferdinando, come gran maestro dell’ordine di Santo Stefano, non solo aveva fermato i corsari, ma aveva dato al cristianesimo una pirateria altrettanto capace e crudele. Gli stefaneschi (e non solo loro) non erano secondi a nessuno nel saccheggio, nello stupro e nel far schiavi.

Per molto tempo la statua bianca del granduca restò ai margini della città. E fu letteralmente dimenticata. Ma un certo punto si decise di intervenire, perché era di vitale importanza per il granducato chiarire ai cittadini e ai visitatori il potere di Ferdinando e di Livorno stessa. Per questo nel 1621 fu commissionata un’aggiunta a un altro scultore, Pietro Tacca. Quattro schiavi “mori” incatenati vennero messi ai piedi di Ferdinando. Con quell’immagine di uomini sottomessi e umiliati Livorno voleva dire al mondo che la sua ricchezza (e la sua stessa nascita) era dovuta alla tratta degli schiavi e allo sfruttamento del mare.

I quattro uomini sono tutti di rara bellezza. Solo di due si sa il nome: un vecchio turco dal viso segnato chiamato Alì e un giovane africano di nome Morgiano, che lo scultore aveva studiato dal vivo nel famoso bagno della città, una fortezza dove gli schiavi sono stati imprigionati per secoli.

Nessuno pensa mai a Trapani, Messina, Napoli, Venezia, Livorno o Roma come luoghi di schiavitù

Guardandoli, guardando soprattutto Morgiano, si nota quanto il suo viso somigli ai tanti Morgiano che oggi, nel 2016, lavorano come braccianti agricoli sottopagati in Puglia, in Sicilia, in Piemonte. Uomini che lavorano tra le dodici e quattordici ore al giorno per cifre irrisorie.

Morgiano, un uomo del 1600, ha gli stessi occhi dei vari Mamadou, Pape, Ramadi che per pochi spiccioli raccolgono le mele, i pomodori, le carote, i ravanelli destinati al nostro mercato ortofrutticolo sempre più affamato di braccia. Un mercato che vuole produrre tutto l’anno, vuole le fragole a gennaio, ma non è disposto a sborsare un euro in più per avere quello che si è prefissato. Una nuova schiavitù che spesso viene quasi considerata un male necessario. Ed ecco che più di cinquemila donne rumene nel ragusano non solo sono sfruttate fisicamente nei campi, ma lo sono anche sessualmente da caporali e padroni. Per questo sindacalisti come Yvan Sagnet denunciano la situazione e si mettono a capo di proteste difficili che costano fatica e costanti minacce. Ed è stato proprio Sagnet a ricordare al festival èStoria 2016, dedicato al tema della schiavitù, che “secondo il rapporto Agromafie e caporalato, prodotto dalla Flai Cgil nel 2015, sono circa quattrocentomila i lavoratori italiani e stranieri vittime del fenomeno del caporalato nel nostro paese”.

La schiavitù in Italia è una realtà nel 2016. Per fortuna ci sono tante persone come Yvan Sagnet che cercano di rompere il muro di omertà che circonda il fenomeno. Basti citare la recente protesta dei circa duemila braccianti indiani sikh dell’agro pontino che hanno incrociato le braccia e sono scesi in piazza a Latina, grazie a un’iniziativa della Flai Cgil, che legava il loro sciopero a quello di altri lavoratori del settore. La protesta è nata per rivendicare non solo salari più equi, ma anche per vedere affermata la loro la dignità di esseri umani.

Rimuovere il passato per occultare il presente

Spesso i luoghi delle schiavitù del terzo millennio in Italia si sovrappongono a quelli delle schiavitù del cinquecento, seicento e settecento. È come se da allora non fosse stato enunciato l’articolo 4 della Dichiarazione universale dei diritti umani, che dice: “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”.

L’Italia si dimostra a tratti reticente sull’argomento, e il silenzio sulla tratta che ha interessato l’alto medioevo fino a circa metà dell’ottocento sembra essere non solo un modo per rimuovere il passato ma anche per occultare il presente.

Quando pensiamo alla schiavitù le immagini che ci balenano subito in mente sono quelle dei campi di cotone in Louisiana, o dei mercati di schiavi in Alabama. Nessuno quasi mai pensa a Trapani, Messina, Napoli, Venezia, Livorno o Roma come luoghi di schiavitù.

Ma lo sono stati. E spesso lo sono ancora.

Nella toponomastica e nell’arte italiana sono rimaste molte tracce della schiavitù

Basta guardarsi intorno per ritrovare tracce di questa sopraffazione un po’ in tutta la penisola.

La schiavitù dei secoli antichi, va detto subito per chiarezza, era reciproca. Molti europei finivano sotto il dominio degli ottomani. Città come Tunisi, Tripoli, Algeri e Salé pullulavano di spagnoli, italiani, francesi, inglesi, persino islandesi, resi schiavi. Ci sono molte testimonianze su queste schiavitù bianche, alcune illustri come quella di Miguel de Cervantes, che fu schiavo ad Algeri per cinque anni. Il futuro autore del Don Chisciotte raccontò la sua esperienza nella commedia El trato de Argel e riprese più volte il tema in altri testi teatrali come La gran sultana, El gallardo español e Los baños de Argel. Ma se di questa storia sono rimaste reminiscenze in testi e persino in melodrammi (oltre a Cervantes pensiamo a L’italiana in Algeri di Gioacchino Rossini), di quello che succedeva agli altri (ovvero africani, arabi, turchi) sappiamo solo attraverso fonti private e materiale di archivio. Anche se, per capire, basterebbe osservare il paesaggio, notare per esempio che nella toponomastica e nell’arte sono rimaste tracce di questo passaggio di dolore.

La cena di Emmaus di Marco Marziale.

Ci sono molti quadri che rappresentano la schiavitù in Italia. Basti pensare alla schiavetta di Lorenzo Lotto, vestita di arancione, che corre esausta dietro a un bambino birichino nel quadro Santa Lucia davanti al giudice (1532), conservato alla pinacoteca di Jesi; o allo schiavo agghindato di Marco Marziale in piedi vicino a Gesù e preda di una struggente malinconia nella Cena di Emmaus (circa 1506). E come dimenticare i mori incatenati a forma di candelabri che punteggiano le sale della settecentesca Ca’ Rezzonico a Venezia? Ed ecco che spuntano gondolieri di origine africana in Vittore Carpaccio (1465 circa–1525/1526) o un bell’adolescente vestito di bianco, orgoglioso ma sottomesso, in un ritratto del pittore Alessandro Longhi (1733–1813).

Sette milioni di schiavi nel Mediterraneo

E poi, in un ipotetico tour alla ricerca degli schiavi mediterranei, non dovrebbe mai mancare una visita alla basilica di Santa Maria gloriosa dei Frari, sempre a Venezia. Una chiesa piena di tesori, dalla tomba del Canova, all’Assunta di Tiziano. Ma quello che più colpisce è il monumento al doge Giovanni Pesaro, collocato nella navata sinistra della chiesa. Il doge è una figurina in alto, quasi irraggiungibile. Sotto, quattro schiavi mori portano il peso del monumento sulle loro spalle. Il loro aspetto è brutale. I vestiti sono strappati e sporchi. Lo sguardo torvo, l’aspetto animalesco. Non sembrano quasi umani. Gli occhi iniettati di sangue e fatica. Occhi pieni di odio e di morte.

E se non bastasse l’arte, andrebbero esaminati a fondo i visi degli italiani. Sono in tanti ad avere nelle loro vene il sangue di avi vissuti in schiavitù provenienti dalla Turchia, dal Senegal, dall’Albania, dal Marocco. Ce lo ricorda un bel volume storico, uscito di recente, dal titolo Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) di Salvatore Bono, che si era già occupato della materia in altre opere, tra cui il notevole Schiavi musulmani nell’Italia moderna, galeotti, vu’ cumprà, domestici. Sfogliando il volume di Bono scopriamo subito che la schiavitù mediterranea ha riguardato sette milioni di individui: africani (soprattutto dell’Africa occidentale e del Corno D’Africa), arabi, turchi, spagnoli, francesi, ebrei, ucraini, magiari, greci, tedeschi, scandinavi. Nessuno è scampato al flagello. Ma se in altri testi l’attenzione era tutta per gli schiavi europei in territorio islamico, Bono cerca di essere equidistante e racconta anche l’odissea degli schiavi musulmani (e non solo, l’autore parla anche degli schiavi africani di religione animista) nello spazio di mezzo costituito dal mar Mediterraneo.

Nelle pagine dei suoi volumi l’Italia ha un ruolo importante. Scopriamo con meraviglia che uno dei più grossi centri schiavistici era Napoli. Nel 1661 la città contava più di ventimila schiavi e avere uno schiavo era quasi alla portata di tutte le tasche e non solo di quelle aristocratiche. Anche la Sicilia, con i grandi mercati di Messina e di Trapani, era una piazza importante. Dalla metà del quattrocento alla prima metà del cinquecento l’isola fu al centro del commercio della canna da zucchero. Le Americhe le avrebbero fatto concorrenza più in là. Per questo ebbe bisogno di braccia, che vennero prese dall’Africa occidentale. La Sicilia, in quegli anni, era di fatto una piccola Alabama.

In una testimonianza il venditore garantiva che il giovane schiavo ‘non ha mal caduco e non caca e piscia a letto’

Se di Livorno si è già detto, Bono e altri storici hanno sottolineato l’importanza delle città rivierasche per quanto riguarda la tratta. Ad alimentare il mercato erano i saccheggi sulle rive magrebine, le guerre contro l’impero ottomano (la guerra di Candia e la battaglia di Lepanto) e gli assalti alle navi corsare concorrenti. Uno schiavo poteva essere venduto per soli otto ducati fino ad arrivare alla cifra record di 107 ducati. Gli anziani e i bambini costavano pochissimo, gli adolescenti moltissimo. Il mercato chiedeva uomini sani e integri, forti abbastanza da poter sopportare il duro lavoro nei campi o per non soccombere troppo in fretta al remo di una galera. Gli schiavi erano oggetti di scambio, potevano essere ricevuti come premio o addirittura ereditati.

A volte, come ci ricorda Salvatore Bono, c’erano richieste specifiche da parte dei futuri compratori. Come quella di Cosimo III che scrisse ad Alì Pascia di mandargli “due giovanetti negri eunuchi di tenerà età, che non passi il 14, o li 15 anni, che non abbiano il naso ritorto o schiacciato come la maggior parte di quella nazione, né patischino di fantasia”. Lo stesso Cosimo chiese poi che gli fosse inviato un “uomo negro con capelli lunghi”, probabilmente un tuareg. Dello schiavo dovevano essere segnalati i difetti. Dire se aveva avuto il vaiolo, se era “guallaruso” (ovvero con un ernia) o “fuitaro” (con la propensione alla fuga). A volte era accompagnato da raccomandazioni, come ricorda Bono citando il caso di un etiope di 12 anni, il cui venditore rassicurava il futuro proprietario garantendogli che il giovane “non ha mal caduco e non caca e piscia a letto”.

A sinistra, la schiava vestita di arancione (in basso) nel dipinto Santa Lucia davanti al giudice di Lorenzo Lotto; a destra un adolescente nero ritratto dal pittore Alessandro Longhi.

Naturalmente gli schiavi soffrivano di malinconia e per le violenze subite. Morivano spesso di morte violenta e le donne venivano quasi sempre violentate dai padroni. I bambini cadevano in mano di pedofili senza scrupoli e anche chi aveva la fortuna di non essere abusato sessualmente doveva subire una vita di stenti, di lavori e orari estenuanti. Infanzie e giovinezze rubate, passate dietro al bestiame o legati a un remo, senza vedere quasi mai la luce del sole. Un inglese di nome William Davies scrisse un testo, la Veridica istoria, che fu un best seller della letteratura di viaggio del seicento. Davies, cerusico e fervente calvinista, racconta di come era dura la vita in schiavitù nelle galere di Livorno. Gli schiavi venivano rasati, testa e barba, ogni dieci giorni. Non avevano quasi vestiti, tranne alcune brache di lino. “La miseria delle galere”, scrive Davies, “è inconcepibile e inimmaginabile”. Un universo che lo storico Fernand Braudel definì, secoli dopo, concentrazionario. Chi non sopportava quelle torture cercava, spiega Davies, di suicidarsi o di uccidere i superiori. E quando non stava in galera, doveva trasportare pietre e detriti.

I santi neri in Italia

C’era però chi non si suicidava e cercava di far del suo percorso schiavile una sorta di cammino di redenzione. In Italia, come in altri paesi europei, era molto difficile riuscire a emanciparsi dalla schiavitù e a costruirsi una posizione, contrariamente al mondo islamico, dove questo era spesso possibile. Furono tanti gli schiavi diventati importanti comandanti o politici dopo la conversione all’islam. In Italia, invece, si registra solo l’esigua presenza di santi neri, soprattutto in Sicilia, provenienti dalla schiavitù. I più noti tra questi furono Antonio di Noto e Benedetto di San Fratello. Giovanna Fiume in Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna fa un identikit di questi due uomini, entrambi neri, uno catturato da pirati siciliani e fatto schiavo, l’altro nato da genitori etiopi già schiavi. La loro devozione fu forse dettata dalla necessità, ma sta di fatto comunque che questi santi neri alleviarono, almeno spiritualmente, l’oppressione dei tanti che vivevano in condizione servile. Peccato però che tutto questo non servì a convincere la chiesa in primis che la schiavitù era un errore. Nel momento di fare schiavi l’interesse economico era maggiore dell’umanità. Anche lo stato pontificio, infatti, usava schiavi nelle sue galere che partivano da Civitavecchia.

La schiavitù mediterranea durò fino all’inizio dell’ottocento. Poi tutto fu messo nel cassetto, dimenticato, rimosso. Ma ora, nel ventunesimo secolo, la storia si sta ripetendo negli stessi luoghi. Quello che avviene oggi ai tanti senegalesi o indiani impiegati nell’agroalimentare è parte di uno stesso disegno di oppressione, che lega l’antico al moderno.

Ed ecco che Morgiano, il Morgiano di Livorno, ci guarda. È giovane, bello, ancora in catene dopo secoli. Chissà cosa pensa guardando il nostro mondo. La schiavitù è un cancro che diffonde ovunque le sue metastasi. Oggi ogni volta che prendiamo un pomodoro in mano, o una pesca o una mela, dobbiamo pensare alle mani di chi ha raccolto quel frutto, ai suoi sogni infranti. Per denunciare questa situazione il musicista Sandro Joyeux, tre anni fa, ha deciso di suonare nella tendopoli di San Ferdinando, dove molti braccianti agricoli, per la maggior parte di origine africana, vivono in situazioni precarie e in condizioni igieniche spaventose. Così è nato l’Antischiavitour che ha portato Joyeux da Rignano a Saluzzo, fino ad arrivare a Rosarno. Luoghi di sfruttamento, che sono diventati anche luoghi di lotta. Luoghi dove si può cominciare a pensare a un futuro diverso dal passato. La strada è lunga, ma il primo passo è stato fatto.

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