19 settembre 2011 15:23

Sesto San Giovanni era la “Stalingrado d’Italia”. Un sobborgo a nord di Milano pieno di fabbriche e di operai. I nomi delle aziende erano famosi in tutta Italia: Magneti Marelli, Falck, Breda, Ansaldo, Campari. Perfino i giganteschi stabilimenti avevano nomi suggestivi come Vulcano e La Pagoda. Erano posti enormi, cattedrali del lavoro, monumenti al capitalismo e al potere industriale.

Il fumo si alzava dalle ciminiere e le sirene suonavano tre volte al giorno per segnalare il cambio di turno. Alcuni degli operai vivevano in città giardino progettate per loro, come il villaggio Falck, mentre molti altri abitavano negli appartamenti di due stanze tipici della classe operaia italiana, le case di ringhiera. Sesto era di sinistra, militante e sovversiva. Nel 1920 le fabbriche furono occupate e sembrava che stesse per scoppiare una rivoluzione. Ma poi arrivò il fascismo, i sindacati furono annientati e per i vent’anni successivi Sesto la rossa rimase tranquilla. Nel 1943 e nel 1944, nonostante il regime e l’occupazione nazista, gli operai scioperarono. Molti furono deportati in campi di concentramento dai quali non sarebbero più tornati. Dopo il 1945 la Stalingrado d’Italia rinacque. Nel 1948, quando a Roma spararono a Palmiro Togliatti, gli operai insorsero di nuovo.

Gli anni cinquanta e sessanta furono quelli della grande immigrazione dal sud. A ogni elezione venivano eletti sindaci del partito comunista. C’era anche una cultura rossa, con biblioteche, fondazioni per la ricerca, centri culturali, sedi sindacali e numerosi monumenti ai partigiani e ai combattenti della resistenza. L’architetto comunista Piero Bottoni progettò un nuovo municipio che sembrava l’altoforno di un’acciaieria. Alla fine degli anni sessanta enormi cortei di operai marciavano attraverso la cittadina e gli studenti andavano ad aspettare le tute blu fuori dai cancelli delle fabbriche. Sembrava che la nuova alba del potere operaio si stesse rapidamente avvicinando. Ma i tempi stavano cambiando. Una alla volta le fabbriche chiusero. Negli anni ottanta l’area occupata da quegli stabilimenti era diventata un grande deserto industriale. Alcuni furono demoliti o convertiti in teatri o spazi espositivi, altri furono trasformati in supermercati, outlet, centri commerciali. Le cattedrali del lavoro erano diventate gusci vuoti, i loro tetti erano crollati, le loro macchine erano ormai obsolete e arrugginite.

La vera storia

Nella zona si trasferirono immigrati e senzatetto, che furono regolarmente sfrattati. Gli speculatori cominciarono a mettere gli occhi su quei milioni di metri quadrati edificabili vicino Milano. Ormai quella zona era pronta per accogliere case e condomini. Arrivarono alcune superstar come Renzo Piano e fu progettato un bellissimo parco. Ma la battaglia politica continuava. Chi avrebbe dovuto costruire il futuro di Sesto, l’ex Stalingrado d’Italia ora senza operai e senza memoria del suo passato?

Forse saranno i giudici a scrivere la vera storia di Sesto San Giovanni negli anni ottanta e novanta. Oggi anche il meraviglioso archivio di Sesto, che contiene la storia delle fabbriche, degli operai e delle loro battaglie, rischia di essere chiuso. Quello che sembra chiaro è che la sua vicenda è una lezione per tutta la sinistra. L’eredità e la storia del movimento operaio sono state messe in vendita. Non sono terreni qualsiasi, ma muri, macchine e nomi che dovrebbero essere incisi nel tessuto della città. La scoperta del “sistema Sesto” è una tragedia, non per le poche persone coinvolte, ma per un’intera generazione. La sinistra italiana ha venduto la sua anima, e proprio nel cuore della sua terra natale.

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