“Buongiorno a tutti, il mio nome è Yang, forever Yang”. La guida si presenta con una battuta collaudata (la ripeterà più tardi presentandosi a un gruppo che si aggiungerà a metà strada) e come una cabarettista di un teatrino off off aspetta la risposta del pubblico, che arriva puntuale. Tutto il pullman scoppia in una risata, il ghiaccio è rotto. Una famiglia canadese francofona – genitori e due figli adolescenti –, una giovane coppia italiana, un gruppetto di americani attempati, due coppie di amici di Singapore e una decina di giapponesi con una guida solo per loro: tutti insieme in viaggio verso il confine più militarizzato del mondo, quello che divide Corea del Nord e Corea del Sud. La striscia di terra larga 4 chilometri – due a nord e due a sud del confine – che corre lungo il 38° parallelo è chiamata Zona demilitarizzata (Dmz), un’area cuscinetto creata con la firma dell’armistizio del 1953 all’interno della quale solo un certo numero di militari dei due paesi può sostare per pattugliare il confine. Il governo di Seoul ha fatto della parte meridionale della Dmz una meta turistica da 700-1000 visite al giorno, un’escursione quasi obbligata per chi è di passaggio a Seoul, con piccoli musei della guerra, gift shop, pranzo “tipico” coreano e il brivido che solo sbirciare il paese più recluso e misterioso del mondo può dare. Tutto per l’equivalente di circa 80 euro. Se si è fortunati – e noi lo siamo stati – è possibile che a bordo del pullman salga anche un “defector”, uno dei 25mila nordcoreani scappati al Sud che, a pagamento, raccontano la loro storia e sono a disposizione per soddisfare la curiosità dei gitanti.

I North Korea watchers

La prima tappa è una piattaforma di avvistamento con potenti cannocchiali puntati verso nord. È un vero peccato che la mattina della nostra visita una fitta nebbia lattiginosa impedisca di vedere alcunché, una specie di rappresentazione fisica dell’alone di mistero che avvolge la Corea del Nord che però non scoraggia i turisti.

Al Dora observatory, la seconda tappa, questi signori cinesi forse sono riusciti a scorgere qualcosa.

Dalle postazioni di avvistamento è proibito fare fotografie ma vicino ci sono diversi punti per photo opportunity niente male.

La terza sosta prima di andare a pranzo e partire per la destinazione finale, la linea di confine, è uno dei quattro tunnel scavati dai nordcoreani sotto il 38° parallelo per attaccare Seoul e scoperti dai sudcoreani tra gli anni settanta e gli anni novanta. Caschetto da minatore in testa, si scende a bordo di una monorotaia fino a tre quarti del tunnel per poi procedere a piedi fino alla fine. In realtà non si vede granché, un tunnel, niente di più. Fuori, invece, c’è un piccolo museo che illustra, con tanto di manichini, la storia della scoperta dei quattro trafori scavati dal nemico.

Pausa pranzo in un ristorante a conduzione familiare. A metà tra un autogrill e un salone da mensa con stanza appartata per le occasioni speciali dove si mangia seduti per terra, il locale serve un pasto coreano, con bulgogi (carne marinata in una salsa di soia dolciastra e cotta su un fornelletto direttamente al tavolo) e diversi piattini di contorno con verdure e germogli. All’ingresso, chiuso tra due porte di vetro che trattengono l’aria condizionata all’interno e creano con il sole un micidiale effetto serra, un quintale dell’ingrediente principe.

Finalmente un po’ di brivido. Il tono di Forever Yang, che per la prima parte del viaggio aveva mantenuto un registro da intrattenitrice comica, si fa più serio. Stiamo per entrare nella Joint security area, il punto più vicino alla Corea del Nord visitabile da chi viene da Sud. Non si scherza. Arrivati alla base di Camp Bonifas, sede del comando militare della Nazioni Unite incaricato di vigilare sull’armistizio del ‘53, si sale a bordo di un pullman dell’esercito sudcoreano. C’è anche un giovane soldato di leva che in ottimo inglese e con un tono perentorio dà istruzioni su come ci si deve comportare una volta scesi dal pullman e arrivati alla linea di confine, di fronte alle guardie nemiche. Divieto assoluto di scattare fotografie fino al suo via libera. Si scende, si procede in fila per due e ci si dispone orizzontalmente davanti a una linea gialla alle spalle delle guardie sudcoreane appostate davanti alle casette azzurre (visitabili all’interno) dove avvengono gli incontri tra i delegati di Seoul e Pyongyang e dove nel 1953 fu firmato l’armistizio.

Guai a oltrepassare la linea gialla. I soldati sudcoreani indossano dei Rayban neri che gli danno un’aria minacciosa e stanno tutto il tempo nella posizione base del Taekwondo, con i pugni stretti e i gomiti leggermente piegati, pronti a reagire a un eventuale attacco. Di fronte, oltre la linea di demarcazione, in cima alla gradinata di un edificio, è appostata una guardia nordcoreana che con un cannocchiale passa in rassegna la fila di gitanti emozionati.

Ogni tanto la guardia sparisce dentro l’edificio, poi esce, si ferma e sta a guardare. I soldati sudcoreani fanno lo stesso, la guardano. Due nemici tecnicamente ancora in guerra, uno di fronte all’altro, si scrutano. Nessuno fiata e la tensione è alta. Poi, però, all’ok del soldato-guida, parte una raffica di scatti che riporta la situazione alla (sur)realtà.

*Junko Terao è l’editor di Asia e Pacifico di Internazionale. Su Twitter: @junkoterao Su Instagram: junkoterao

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