15 aprile 2022 15:32

Più passano i giorni, più l’immane sforzo delle autorità cinesi per contenere (e possibilmente azzerare) i contagi della variante omicron, che dall’inizio di marzo a Shanghai hanno ripreso a salire, appare una battaglia disperata e dalle conseguenze potenzialmente disastrose per l’economia interna e per quella globale (preoccupa molto l’impatto sulla catena delle forniture, già in crisi).

Costringere in casa 26 milioni di persone senza preavviso (in origine il piano era di chiudere per cinque giorni metà città e per i cinque successivi l’altra metà) lasciando molti senza viveri o medicine; testare a tappeto più volte l’intera cittadinanza isolando in strutture per la quarantena i positivi asintomatici (la stragrande maggioranza) e i loro contatti più vicini e ricoverando i malati di covid in ospedali dove chi è affetto da altre patologie non è ammesso; separare figli piccoli e genitori infetti (regola annullata dopo le polemiche suscitate, “ma ormai, in un paese che vorrebbe incentivare le nascite, il danno è fatto”, scrive Maria Siow sul South China Morning Post); e, infine, bloccare letteralmente la capitale economica del paese è una strategia che riporta con la mente a dove tutto è cominciato, a Wuhan e in altre regioni cinesi all’inizio del 2020.

Allora le misure drastiche messe in campo si rivelarono salvifiche, il paese riuscì a superare la fase peggiore della pandemia e a rimettere in moto le attività in tempi brevissimi, recuperando ritmi di crescita invidiabili mentre Europa e Stati Uniti erano alle prese con la conta dei morti e i lockdown.

Questione d’immagine
Oggi però le cose sono cambiate, le nuove varianti sono più contagiose ma meno pericolose, ci sono i vaccini e buona parte del mondo si è avviata alla convivenza con il virus. Ma la Cina, insieme a pochi altri, resiste, con un’ostinazione che sembra sempre più irrazionale. Il sospetto è che in parte ci sia una questione d’immagine e di coerenza: continuare con la strategia che finora si era rivelata vincente sembra l’unica opzione possibile per Pechino e per il presidente Xi Jinping, che a metà marzo in tv invitava i funzionari a “mettere sotto controllo repentinamente i nuovi focolai”. Eppure di recente c’erano stati dei timidi aggiustamenti che facevano presagire una possibile transizione verso una gestione più sostenibile della pandemia, se non verso la convivenza con il covid: distribuzione di test fai da te, isolamento mirato e non più generalizzato, modifica dei criteri per l’ospedalizzazione. Però, “se interrompiamo tutte le misure di contenimento adesso, significa che gli sforzi fatti finora non sono serviti a niente”, ha risposto alla fine di marzo un alto ufficiale della Commissione sanitaria nazionale a un giornalista che chiedeva perché la Cina non trattava il covid come una malattia endemica.

Gli esperti, scrive Nikkei Asia, che riportava anche il virgolettato precedente, sono divisi sui possibili costi di questa rigidità. Alcuni sostengono che porterà a perdite economiche pesanti, altri invece che le misure drastiche assicureranno la stabilità industriale, oltre a salvare vite (c’è da dire, però, che finora la nuova ondata, a fronte di quasi 28mila nuovi casi positivi emersi il 14 aprile in città, di cui 2.500 sintomatici, non ha fatto registrare nessun morto). Secondo le stime recenti dell’Università cinese di Hong Kong, continuando con i lockdown il paese perderà il 3,1 per cento di pil al mese, “chiaramente un costo superiore rispetto a quello registrato in altri paesi”.

La popolazione è esasperata e fatica a capire per quale ragione i positivi asintomatici siano trasferiti nei centri per la quarantena

E allora, perché Pechino continua su questa linea? Un nodo cruciale sono i vaccini: secondo i dati ufficiali, l’88 per cento della popolazione del paese è vaccinato, ma tra gli anziani vulnerabili la percentuale scende al 55 per cento. Questo perché la campagna vaccinale ha dato la precedenza alla popolazione attiva (18-59 anni), in parte per il fatto che mancavano studi clinici sugli altri gruppi d’età. E, soprattutto, nonostante gran parte della popolazione sia vaccinata, il livello d’immunizzazione è basso, in quanto i vaccini cinesi sono meno efficaci. Tutto ciò, insieme alle carenze del sistema sanitario, spiega in parte la difficoltà cinese a cambiare strategia.

Il problema è che la popolazione è esasperata e in particolare fatica a capire per quale ragione i positivi asintomatici siano trasferiti nei centri per la quarantena dove devono vivere in condizioni di promiscuità e senza il rispetto delle norme anticontagio. “Il modo in cui i cinesi vedono il covid sta cambiando”, scrive l’Economist, e i cittadini non si fidano più del partito, ma le autorità non danno segno di voler cambiare linea. I mezzi d’informazione di stato hanno ribadito negli ultimi giorni che la politica “zero covid” va mantenuta. Tutto questo accade in un anno cruciale per Xi Jinping, che al congresso del Partito comunista di ottobre sarà riconfermato per un inedito terzo mandato. E per lui è fondamentale arrivarci con un consenso forte e un paese in salute.

  • La censura non riesce a star dietro al flusso di video postati sui social network dalla gente furiosa e disperata.
  • Chi sta assicurando alla gente chiusa in casa l’approvvigionamento di cibo sono i fattorini, che per poter lavorare dormono in auto o nei negozi non potendo rientrare nelle loro case in lockdown.
  • Shanghai combatte la nuova variante con armi vecchie e inadeguate, scrive Caixin.
  • Il social network Weibo, dove gli utenti in lockdown sfogano la rabbia per la situazione, ha rimosso l’hashtag usato per denunciare la mancanza di viveri.

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