20 settembre 2012 10:44

Mi trovo in Inghilterra per portare le montagne di cose che mia figlia ha accumulato in 22 anni nella casa che ha preso in affitto a Brighton, dove sta per cominciare un master in relazioni internazionali all’Università del Sussex.

E come succede sempre più spesso quando torno in Inghilterra, mi sento spaesato. Dopo quasi trent’anni in Italia, sto dimenticando come fare l’inglese. Sto diventando un alienglishman.

Ecco, in ordine sparso, cinque cose normali dell’Inghilterra che adesso mi sembrano strane, o che avevo dimenticato di sapere, o che ho cominciato a guardare con gli occhi di un estraneo.

1) Il rispetto estremo della fila. L’altro giorno, all’aeroporto di Gatwick, mi si è aperto un piccolo abisso davanti, prima di accorgermi di stazionare dietro a delle signore che con la fila non c’entravano niente.

2) I bambini con le redini. Ho visto ieri una mamma che passeggiava con la figlia al guinzaglio sul marciapede in una zona tranquilla con poco traffico. Boh. Forse una volta mi sarebbe sembrato normale, adesso che il mio fenotipo culturale si è italianizzato non riesco a non essere scioccato. Eppure so che la mamma lo fa perché ama la sua bambina. Come scrive una madre

sul forum online Circle of moms: “Non è che tratto il mio bambino come un cane; tratto il mio cane, se lo amo, come un bambino”.

3) Le traffic-calming schemes – quelle strade piene di doppie curve e dossi di gomma che servono per rallentare il traffico in zone residenziali, che a me fanno venire la voglia di schiacciare l’acceleratore.

(Digressione: queste chicanes, però, sono utili per constatare un fenomeno: quello dei fari lampeggianti che significano, secondo il codice informale della strada inglese: “Prego, after you!”. In Italia, nella mia esperienza, è più facile che significhino: “Non ti muovere neanche di un centimetro!”. Per un italiano in Inghilterra questo malinteso è un falso amico culturale che al massimo può costare un’esitazione reciproca. Per un inglese in Italia, invece, le conseguenze possono essere ben più serie. È chiaro però che su strada fuori città il lampeggiante ha un altro significato, uguale da noi, da voi e forse ovunque – tant’è che l’ho visto l’anno scorso nel Ladakh, il Tibet indiano. Cioè: “Attenzione: più avanti c’è la polizia stradale”).

4) Una parola che ho riesumato ieri, che non uso e non sento da anni: twitten. No, non è Twitter scritto male. Il mio patrigno mi stava spiegando come arrivare in bici a un nuovo supermercato vicino a casa sua, quando a un certo punto ha detto: “Then you take the twitten between the houses”, poi prendi il twitten tra le case. Nella contea di Sussex, i twitten sono appunto quei passaggi pedonali antichi, tradizionali, legalmente riconosciuti, che passano tra le case nei sobborghi inglesi, spesso tra alte siepi o impenetrabili recinti di legno. Sono la memoria storica di un sistema viario che esisteva prima di queste case di mattone, tutte uguali, prima di questi cul de sac che finiscono in rotatorie dotati di cespugli super potati. Anche la parola è una memoria storica, un ricordo del Medioevo sopravvissuto nell’epoca di Twitter. Che poi è una parola antica anche questa.

5) Le zone invisibili del paese, quelle che non figurano mai, o quasi mai, nell’immaginario straniero dell’Inghilterra, e che in questo angolo bucolico del Sussex in cui mi trovo adesso sembrano lontane anni luce. Per esempio: ieri mia figlia ha ricevuto un sms da un amico che sta facendo il tirocinio per la laurea in medicina in un ospedale a Ipswich, città portuale del Suffolk con un alto tasso di disoccupazione. “Oggi sono andato a trovare una ragazza che ha cinque figli, fatti con cinque uomini diversi”, ha scritto. “Questa è Ipswich”. Forse qui però non c’entra la mia italianizzazione. Le zone invisibili esistono un po’ in tutto il mondo.

Mi sono accorto di essere diventato troppo italiano anche quando la mattina sono andato in banca, in posta, o a fare una piccola ricerca in biblioteca e comprare delle cose in quattro o cinque negozi diversi. Pensavo che ci avrei messo almeno tre ore per fare tutto, invece dopo un’ora avevo finito. Avevo cambiato il fuso orario sull’orologio da polso, ma non su quello interno.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it