07 luglio 2014 16:00

L’isola di Poveglia, nella laguna di Venezia. (Marco Di Lauro, The New York Times/Contrasto)

La prima asta a trattativa privata di immobili dello stato italiano, promossa dal governo Monti e assecondata da quello di Renzi, non è andata tanto bene, nonostante il roadshow organizzato dal demanio ad aprile per illustrare i beni ai “principali players dell’industria immobiliare”. In vendita c’erano cinque lotti, ma solo uno è stato aggiudicato: l’ex ospedale militare di Trieste, comprato da un immobiliarista della città di Svevo, Saba e Joyce per la modica cifra di 610mila euro.

Per gli altri quattro o le offerte erano troppo basse o non ce n’erano proprio. Nonostante la copertura fornita dalla stampa internazionale sulla possibilità di acquistare il diritto di superficie per 99 anni dell’isola “più stregata del mondo” (o forse proprio a causa di questo), l’isola di Poveglia, nella laguna veneziana, è rimasta senza acquirente perché le due offerte erano troppo basse. Peccato. Poteva diventare un altro albergo cinque stelle in una città che sicuramente non ne ha abbastanza. Altrimenti non si spiegherebbe la corsa a sfrattare uffici pubblici e sedi universitarie sul Canal Grande per trasformarli in posti letto di lusso.

E per il castello di Gradisca d’Isonzo, vicino a Gorizia? Zero offerte. Idem per Casa Nappi, palazzo storico nel centro di Loreto, non lontano dal santuario mariano. A Taranto, l’offerta più alta per l’ex convento di San Domenico Maggiore Monteoliveto era di appena 300mila euro, il prezzo di un piccolo appartamento al centro di Roma.

Certo, l’Italia ha un patrimonio storico così ampio da non riuscire a gestire neanche i beni culturali di valore enorme che (almeno finora) a nessun governo è venuto in mente di alienare. Come la Domus aurea a Roma, chiusa al pubblico dal 2006 e diventata nel frattempo dormitorio ufficioso per i senzatetto (si spera che non dormano all’interno, perché tende a perdere pezzi).

Come ricorda l’archeologo e presidente del Fai Andrea Carandini, sull’inserto domenicale del Sole 24 ore, anche nei bei tempi andati, quando lo stato aveva i soldi per finanziare i restauri, non è che siano stati sempre spesi bene: “Si è continuato per troppo tempo a restaurare le pitture quando da sopra pioveva, che è come ridipingere il pianterreno di casa quando il tetto è bucato”, scrive Carandini. Adesso si sta cercando lo sponsor per cofinanziare un restauro più assennato. Annunciando a giugno sgravi fiscali per le imprese che vorrebbero partecipare, il ministro della cultura Dario Franceschini ha detto di aspettarsi “una corsa per legare il proprio nome a quello della Domus aurea”. Una maratona, piuttosto; i concorrenti non sono ancora arrivati nello stadio.

Gli spiccioli che l’Italia ricava dalla vendita dei suoi beni “minori” sono solo delle piccole increspature sulla superficie del profondo lago del deficit. In questo, lo stato italiano somiglia a una famiglia che per campare in tempi difficili comincia a vendere tutto il suo patrimonio su eBay.

Non sarebbe meglio destinare alcuni di questi immobili di scorta del demanio a sede di startup, invitare delle piccole imprese gestite da giovani a prenderne possesso ad affitto agevolato, per contrastare la fuga dei laureati italiani all’estero? È inutile vendere ai privati che vogliono costruire appartamenti se nessuno può permettersi di comprare gli appartamenti finiti. Anche i privati l’hanno capito, e disertano le aste. Essere favorevoli al mercato non vuol dire solo vendere e privatizzare. Bisogna anche creare mercato.

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