11 maggio 2016 09:35

Ieri sera, appena dopo l’arrivo a Cannes, ho visto una palma caduta. Faceva una certa impressione. Spezzata alla base, che sembrava consumata, era sdraiata lungo tutto il marciapiede. Non c’è albero caduto più triste di una palma. Spero che non sia un presagio della qualità del Festival international du film di quest’anno, perché, almeno sulla carta, l’edizione 2016, che si apre la sera dell’11 maggio, sembra molto, ma molto invitante.

Come ogni anno, Thierry Frémaux, il direttore del festival cinematografico più famoso del mondo, ha dovuto conciliare le varie esigenze dei quasi cinquemila rappresentanti dei vari mezzi d’informazione e comunicazione che si riverseranno sulla Croisette in questi giorni frenetici, cercando anche di non scontentare i più di 30mila professionisti del cinema presenti in una città dove trovare un alloggio è un’impresa da affrontare con sei mesi d’anticipo, o con una buona affidabilità creditizia, o meglio tutti e due.

Nonostante Cannes abbia il privilegio di essere un festival che non deve pregare (quasi) nessuno di presentare il proprio film, il direttore artistico comunque si trova costretto a destreggiarsi tra due richieste spesso contrastanti: quella per un buon quoziente di star power, ovvero una massa critica di nomi di attori e celebrità, e quella dei cineasti che vogliono garanzie che Cannes sia ancora in prima linea nella celebrazione del cinema come forma d’arte.

Dopo l’esordio in sordina l’anno scorso con il piccolo, ruvido film francese La tête haute, Frémaux gioca sul sicuro in questa edizione, affidando l’apertura a Café society di Woody Allen, con un cast che comprende Kristen Stewart, Steve Carell e Jesse Eisenberg e un direttore della fotografia illustre come Vittorio Storaro. Ambientato negli anni trenta, è la storia di un ragazzo ingenuo di New York che va a Hollywood per lavorare con lo zio, un agente affermato, ma viene distratto dalla “cafè society” mondana dell’epoca. Una specie di incrocio tra Midnight in Paris e Good morning Babilonia? Le prime clip fanno sperare, almeno, che ci sarà da ridere, il che non è sempre scritto nel contratto degli ultimi film di Allen.

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Aggiungi (fuori concorso) il poliziesco sardonico The nice guys con Russell Crowe e Ryan Gosling, Money monster di Jodie Foster, che schiera George Clooney e Julia Roberts in un dramma del capitalismo sfrenato ambientato in uno studio televisivo, e (in concorso) il dramma umanitario The last face di Sean Penn, con Charlize Theron e Javier Bardem: insomma, di star power, quest’anno, ce ne sarà.

Anche sul versante della regia: tre anni dopo aver fatto il presidente della giuria, Steven Spielberg ritorna a Cannes con The Bfg, adattamento del romanzo per bambini di Roald Dahl su un’orfana che fa amicizia con un gigante acchiappasogni, interpretato dal bravo Mark Rylance. Spielberg ha già annunciato che il film sarà dedicato alla sua sceneggiatrice Melissa Mathison, che è morta a novembre a 65 anni. Mathison, l’ex moglie di Harrison Ford, era coautrice, con Spielberg, di E.T. – l’ultimo film proiettato nel vecchio Palais Croisette, che poi fu demolito per fare spazio all’attuale Palais des festivals.

E il concorso? È qui che si concentrano le aspettative maggiori, quest’anno più che mai. Anche perché l’assemblaggio 2016 offre una miscela interessante tra firme e nuove promesse. Tra i primi c’è Ken Loach, 79 anni, che due anni dopo aver dichiarato che Jimmy’s hall sarebbe stato il suo ultimo film, torna sulla Croisette con un altro dramma proletario, I, Daniel Blake, ambientato questa volta a Newcastle. I fratelli Dardennes, che come Loach hanno ormai un pass a vita per il concorso a Cannes, saranno presenti con La fille inconnue , un dramma etico che potrebbe rappresentare un salto di qualità, o almeno un salto di riconoscibilità mediatica, per l’attrice francese Adèle Haenel. Pedro Almodóvar ci ritenta con Julieta, un melodramma al femminile già uscito in Spagna, dove ha ricevuto delle critiche piuttosto tiepide.

Trent’anni dopo la sua prima partecipazione a Cannes con Stranger than paradise, in concorso c’è anche Jim Jarmusch con Paterson, la storia di un conducente di autobus che è anche poeta. Come Café society e due altri film in concorso, Paterson è stato prodotto da Amazon Studios – ormai, insieme a Netflix, una realtà con delle risorse finanziare che il sistema tradizionale di Hollywood stenta a raggiungere.

L’edizione 2016 segna anche la consacrazione del cinema romeno, undici anni dopo la sua (ri)scoperta con La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu. La nuova opera di Puiu, Sieranevada (trattandosi di un auteur una cosa è certa: non è ambientato nella Sierra Nevada) è uno dei due film romeni in concorso a Cannes quest’anno; l’altro è il dramma familiare Bacalaureat (Maturità) di Cristian Mungiu, il regista che portò via, giustamente, la Palma d’oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni.

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Il film scandalo potrebbe essere The neon demon del manierista danese Nicolas Winding Refn, e il ritorno di Paul Verhoeven con Elle. Il primo, un dramma cupo con risvolti vampireschi, segue una giovane aspirante modella interpretata da Elle Fanning nel mondo spietato della moda di Los Angeles. Il secondo, che vede il regista di RoboCop tornare dietro la cinepresa dopo un’assenza durata dieci anni, schiera la grande Isabel Huppert – che non si tira mai indietro, anzi – nei panni di una donna violentata che comincia a fare stalking al suo aggressore. Tutti e due passano alla fine del festival – se come esca per rimanere, o motivo per andarsene, ancora non si sa.

Non ho neanche nominato l’ex enfant prodige Xavier Dolan, ormai un veterano di 27 anni al sesto film (Juste la fin du monde), o l’iraniano Asghar Farhadi (quello del bellissimo Una separazione), che presenta un dramma ambientato a Teheran ispirato a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. E nemmeno il sempre provocatorio coreano Park Chan-Wook, oppure la sorpresa brasiliana Kleber Mendonça Filho, subito in concorso al suo esordio a Cannes con il dramma urbanistico Aquarius, o il contingente francese guidato da Bruno Dumont (Ma loute) e Alain Guiraudie (Rester vertical).

Sono invece due dei tre film in concorso girati da donne a intrigarmi di più quest’anno. Il primo è American honey della sempre originale Andrea Arnold, la regista di Fish tank. Segue una squadra di ragazzi americani che di giorno, in una specie di road trip attraverso gli Stati Uniti, vendono abbonamenti di riviste porta a porta, e di notte fanno festa.

L’altro è l’outsider Toni Erdmann della tedesca Maren Ade, che arriva a sette anni dal suo Orso d’argento a Berlino ottenuto con il dramma di coppia Alle anderen. Dai pochi indizi reperibili, sembra che si tratti di una storia generazionale incentrata su un padre che giudica sua figlia troppo seria e ossessionata dal lavoro. La figlia è Sandra Hüller (Requiem), scelta che già promette bene. Però i festival esistono anche per rovesciare i pronostici, soprattutto i miei. Sperando che la palma caduta non sia stata di malaugurio, rimanderei il primo verdetto a fra qualche giorno, quando saranno già passati i film di Allen, Puiu, Guiraudie, Foster e Loach. A dopo…

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