15 agosto 2015 16:46
La zona limitrofa al porto di Tianjin, nel nord della Cina, il 13 agosto 2015. (Jason Lee, Reuters/Contrasto)

Alcune parole ricorrono in modo preoccupante nelle cronache da Tianjin, la città portuale cinese teatro di una spaventosa esplosione in un deposito di sostanze chimiche. Parole come “discrepanze”, “notizie frammentarie”, “le autorità non sanno…”.

Non sanno? In effetti le autorità non sanno di preciso cosa ci fosse nei magazzini della Ruihai International Logistics, la seconda ditta per importanza autorizzata a operare a Tianjin nel trasporto di sostanze tossiche e pericolose. Il capo dei vigili del fuoco di Tianjin ha rilevato “grandi discrepanze tra i documenti doganali e le informazioni che abbiamo ottenuto dall’azienda”. L’ente municipale per la sicurezza lamenta che “le informazioni fornite dai dirigenti aziendali non corrispondono a quelle risultanti dalle nostre indagini”, secondo quanto riferisce il Financial Times.

Gestire l’informazione è cosa delicata, in caso di un grande disastro, e la Cina non è certo un esempio di trasparenza: figurarsi che per parecchie ore i media ufficiali non hanno neppure dato notizia delle esplosioni a Tianjin; quando hanno cominciato a parlarne, hanno cercato di minimizzare, non “turbare” l’armonia sociale con dettagli allarmanti. Anche in Cina però le piattaforme sociali sul web sono ormai capillari, e nonostante sia severamente vietato diffondere notizie “dannose”, decine di “cittadini giornalisti” stanno facendo circolare foto, dettagli, e domande che mettono in questione l’informazione ufficiale.

Per parecchie ore, i media ufficiali non hanno neppure dato notizia delle esplosioni a Tianjin

Molti si chiedono ad esempio se i vigili del fuoco fossero preparati a gestire un incidente di questo tipo. L’esplosione è avvenuta in due tempi, la prima intorno alle 23,30 di mercoledì sera (sei ore in meno in Italia). L’onda d’urto ha coperto quasi 10 chilometri e devastato l’intera zona industriale della città, inclusi edifici di abitazioni. Le mappe del New York Times mostrano le dimensioni del disastro. L’ultimo bilancio (del pomeriggio del 15 agosto) parla di 85 morti, di cui oltre 20 pompieri; oltre 700 feriti, e migliaia di persone senza tetto e obbligate a restare lontane dalla zona.

Altri si chiedono, sul web, quale sia il bilancio reale, se il pericolo sia davvero finito (ci sono ancora incendi in corso) e se ora l’aria sia respirabile, a Tianjin, considerato che dev’essere satura di composti chimici diffusi dall’esplosione e dalle fiamme. Solo questa mattina è stata evacuata l’area compresa in un raggio di tre chilometri dall’epicentro delle deflagrazioni. Ma parecchie ore dopo l’incidente, il capo della polizia di Tianjin ha scritto sulla piattaforma sociale Weibo che gli effluvi rappresentano un pericolo “estremamente ridotto”: ma come si fa a crederlo, quando tutti sentono l’aria puzzolente.

Qui tornano le “discrepanze” citate dalle autorità di Tianjin. Le autorità non sanno con precisione cosa ci fosse in quei magazzini, ma alcune sostanze là contenute erano esplosive a contatto con l’acqua. Non sembra che ne fossero informati i vigili del fuoco intervenuti mercoledì sera, all’inizio per spegnere un incendio: infatti le due esplosioni sono avvenute mentre erano al lavoro. Le avranno provocate proprio loro? E poi: le autorità hanno rilevato cianuro di sodio nelle fognature che escono dalla zona del disastro, e hanno chiuso alcuni dei canali che scaricano nella baia, per evitare la contaminazione. È chiaro che una lista completa delle sostanze coinvolte aiuterebbe a limitare i danni.

Alcune sostanze erano esplosive a contatto con l’acqua. Le esplosioni sono avvenute mentre i pompieri cercavano di spegnere un’incendio.

Insomma, a Tianjin avrebbe aiutato molto una Direttiva Seveso.

Seveso è il comune alle porte di Milano che nel 1976 fu investito da una nube tossica rilasciata da una fabbrica chimica, la Icmesa, in seguito a un incidente. Non c’è paragone con il disastro di Tianjin: a Seveso non ci furono morti, ma 240 persone furono colpite da gravi malattie della pelle. Solo che per parecchi giorni le autorità sanitarie non sapevano bene come intervenire: l’azienda rifiutava di rivelare quali sostanze erano state diffuse, nascondendosi dietro il segreto industriale. Solo in seguito si seppe che era una pericolosissima diossina.

Il disastro di Seveso ha spinto lo stato italiano, e poi tutta l’Unione europea, a emanare una normativa sulla prevenzione dei disastri industriali. Le Direttive Seveso (la prima è entrata in vigore nel 1982, il terzo aggiornamento è del 2012) elencano le sostanze pericolose (combustibili, esplosive, tossiche per gli umani o dannose per l’ambiente, e cosi via) e impongono a ogni azienda di dichiarare i materiali lavorati o immagazzinati. Le autorità hanno l’obbligo di mappare i siti a rischio e predisporre piani di intervento in caso di incidente (tra l’altro la direttiva stabilisce le distanza minima obbligatoria tra impianti a rischio e zone abitate.

Altri disastri industriali hanno fatto impallidire Seveso, per gravità. Si pensi a Bhopal, in India: qui nel 1984 uno stabilimento chimico è esploso rilasciando 40 tonnellate di sostanze tossiche ad alta pressione che hanno investito gli slum intorno alla fabbrica, uccidendo seimila nelle prime ore e molte di più nei mesi e anni seguenti (secondo il governo indiano il bilancio aveva superato le 15mila vittime nel 2007; altre stime arrivano a 20mila morti e centinaia di migliaia di sopravvissuti variamente menomati). La nube tossica era isocianato di metile, ma questo si capì più tardi: infatti anche a Bhopal, come a Seveso, i dirigenti aziendali opponevano il segreto industriale, e i medici non sapevano come trattare quell’umanità agonizzante.

Salvo le dimensioni e il bilancio umano, i disastri di Seveso e Bhopal hanno molte analogie: entrambi rimandano all’assoluta necessità di informare, sia per le aziende che per le autorità. Lo stesso problema oggi si propone a Tianjin. Forse la Cina ha bisogno della sua variante della Direttiva Seveso.

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