13 aprile 2015 14:17

Dicono che succeda sempre. A un certo punto, per qualche ragione, decidiamo di affrontare la nostra vita e di dire: “Ecco”. Alcuni, allora, cercano di scriverlo.

Ci sono molti modi di scrivere un’autobiografia. C’è chi lo fa cercando di inventare quello che non riesce a ricordare, chi cerca di ricordare quello che non riesce a inventare, chi costruisce o decostruisce un personaggio che somiglia al peggio e al meglio di sé, chi racconta orrori e minuzie dei genitori, dei figli, delle mogli, degli uomini, dei barboncini, chi mischia tutto questo e molto altro ancora. Ricardo Piglia, sempre fedele a se stesso, l’ha fatto selezionando e ordinando i suoi scritti.

È un momento: un uomo di settantatré anni, molto letto, molto pensato, molto scritto, sempre più acclamato, decide di decidere chi è stato. Editandosi edita la sua vita: stabilisce quali siano i testi che danno il suo profilo definitivo. Migliaia di pagine resteranno fuori da questa Antología personal. Al suo interno, trecento pagine saranno Ricardo Piglia.

Piglia è indubbiamente lo scrittore argentino vivente più importante. Forse non il più emulato: per i misteri e le confusioni tipici delle piume e dei lustrini, sono di più quelli che aspirano a essere Aira. Ma Piglia ha definito meglio di chiunque altro la letteratura argentina contemporanea, il suo canone, le sue problematiche, come la questione centrale di fine secolo in questa fine del mondo: come scrivere dopo Borges.

Quando molti tentavano di riprendere o respingere la sua retorica e il suo parco tematico di specchi, sogni e labirinti, Piglia ha capito che il materiale borgesiano più valido era il suo meccanismo. Ha riformulato l’incrocio tra la narrativa di finzione e il saggio (il saggio come narrativa di finzione e viceversa) e l’ha trasformato nel suo segno. Ha fatto irruzione in piena dittatura e ha stravolto tutto.

Devo ammettere di essere parte coinvolta: non posso parlare di Piglia senza dire che per me Piglia è stato l’Argentina. Successe anni fa: era il 1980, o forse il 1981. La dittatura compiva quattro o cinque anni e io, per non complicare i conti, altrettanti di vita all’estero. Prima fu Parigi e poi Madrid, sempre con la ferma convinzione che l’Argentina non esistesse più, e che non valesse neanche la pena pensarla.

All’epoca l’Argentina al massimo era un deserto, uno strano vuoto in cui avevano ucciso troppi amici e avevano espulso i più fortunati; era un cono di silenzio di cui ogni tanto mia madre mi parlava per lettera. Poi un giorno (sarà stato il 1980, o forse il 1981) ricevetti per posta un libro che mi mandava mia madre. Si chiamava Respirazione artificiale e lo firmava un certo Ricardo Piglia. Lo lessi senza aspettative: non mi ci volle molto per essere investito dalla sua onda d’urto. Fu un cataclisma molto localizzato: l’eruzione di un paese. Respirazione artificiale mi fece credere che esisteva davvero un paese che si chiamava Argentina, e che se qualcuno in quel territorio poteva scrivere una cosa del genere, non tutto era perduto.

Più che un libro fu una pietra, una pietra miliare. Adesso, trentacinque anni dopo, nel suo prologo Piglia dichiara in tono quasi solenne che la sua Antología “lo rappresenta più fedelmente di nessun altro libro mai pubblicato”. Un proclama in piena regola. E il secondo è nell’indice, da cui si nota che Piglia ha messo insieme una serie di racconti, saggi, conferenze, brani di romanzi, diari: tutti i generi da lui frequentati fianco a fianco. Senza nessuna indicazione cronologica: i testi non hanno tempo, sono scritti quello stesso giorno del luglio del 2014 in cui Piglia ha finito l’Antología.

Nasce allora la tentazione di leggerli in chiave autobiografica. Che all’inizio potrebbe essere quasi storicista: il libro si apre, come la letteratura argentina, con un racconto gauchesco, ma di un gaucho che non lo è proprio del tutto: un figlio delle pampas come Piglia, che le pampas non integrano. Segue un secondo racconto sugli effetti della cultura su un bambino di campagna (come Piglia negli anni quaranta), un terzo su un uomo solo che arriva a La Plata (come Piglia negli anni sessanta) e un quarto che è già Piglia adulto, o il suo alter ego di sempre, Emilio Renzi (che legge Cesare Pavese).

Dopo, però, questa tentazione da entomologo noioso si scontra (per fortuna) con l’accurata selezione di generi e tematiche. I saggi, le conferenze e altri racconti affrontano le sue tematiche più importanti: la letteratura, chiaramente, ma anche i soldi, il pugilato, il cinema, il crimine e qualche rivoltoso argentino – Macedonio Fernández, Roberto Arlt, Witold Gombrowicz, Ernesto Guevara, Karl Marx. Sono tutti trattati con la straordinaria intelligenza che Piglia ha trasformato nel suo marchio, con la sua capacità di mettere in rapporto cose che non lo erano, di aprire nuove strade. Che arrivano sempre in chiave di lettura: il mondo come un libro, chiaramente, ma soprattutto la storia della vita di un lettore che, proprio perché è lettore (ed è così lettore), si scrive e ci scrive.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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