13 agosto 2015 16:38

Nell’estate in cui il meridione torna al centro dell’attenzione dopo i numeri del rapporto Svimez, arriva un film sul sud Italia provvidenzialmente disancorato da ogni ricatto dell’agenda politica.

L’ha girato Pietro Marcello, si intitola Bella e perduta ed è l’unica nostra pellicola in concorso al festival di Locarno. Con il precedente La bocca del lupo (ambientato a Genova) il regista casertano aveva vinto nel 2009 il Torino film festival. Adesso Marcello sposta il baricentro del discorso a sud, in quella Terra dei fuochi che si può considerare davvero la parte per il tutto – un disastro locale come una delle spie più visibili di quello nazionale –, prova ne sia il fatto che il titolo (citazione dal Va’ pensiero) si riferisce alla “patria”.

Il film è la storia dell’incontro tra Tommaso Cestrone (l’angelo di Carditello, il volontario che nella vita reale accudì la reggia borbonica in stato d’abbandono contribuendo a rilanciare il dibattito sul degrado del casertano) e un bufalotto di nome Sarchiapone altrimenti destinato a morte certa.

Cestrone, che aveva svolto il suo lavoro tanto bene da ricevere minacce da chi considera il territorio circostante solo oggetto di conquista, morì di infarto la notte di Natale del 2013, due settimane prima che l’allora ministro della cultura Massimo Bray mantenesse la sua promessa facendo acquisire la reggia al patrimonio dello stato, sottraendola in questo modo alla criminalità.

C’erano tutti gli elementi per un film di denuncia o un documentario a tesi

Poiché in Bella e perduta Cestrone interpreta se stesso (il giorno prima di morire, a mezzanotte della vigilia, aveva scritto sul suo profilo Facebook: “In questo momento sono solo, vi giuro, ma sono felice di tutti voi e di questo ministro, anche perché se dico qualcosa mi risponde. È una brava persona e allora viva Carditello”) tutto questo entra nel film con delle conseguenze narrative inattese quanto sorprendenti.

Ecco così che Sarchiapone, rimasto solo, viene affidato a un Pulcinella con cui intraprende un viaggio verso la Tuscia, dove sarà affidato al pastore Gesuino, una specie di Mangiafuoco che recita ad alta voce per se stesso le poesie di D’Annunzio.

Terra dei fuochi, disastro ambientale, reggia di Carditello (proprio qualche giorno fa Bray ha ricevuto minacce di morte per il suo persistente interessamento alla questione), camorra… C’erano tutti gli elementi per un film di denuncia o un documentario a tesi dove l’importante è raccogliere materiale probatorio da consegnare a una procura. Invece Pietro Marcello sceglie la strada più difficile e insieme la più feconda.

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Gira un film visionario, poetico, che non teme di attingere a piene mani dal mito (pochi lo sanno, ma i Pulcinella nella tradizione sono creature psicopompe, tramiti tra noi e l’invisibile, amaramente destinate dall’Alto a svolgere compiti – in questo caso l’accudimento del bufalo– di cui ignorano le ragioni e i fini ultimi), e da una tradizione registica poco praticata che va dal Pasolini di Edipo re al Bresson di Au hasard Balthasar, a Buñuel, a – com’è stato giustamente rilevato – Carmelo Bene per la forte presenza della musica.

Ci sono elementi di vita reale nella finzione di Marcello e viceversa, eppure siamo per fortuna lontanissimi dal mockumentary. C’è l’ecologia, ma più come problema legato al sacro (il rapporto con la terra, con la madre cui apparteniamo e al tempo stesso siamo) che emergenza da affidare a un istituto di statistica o a un’associazione culturale contro le ecomafie.

C’è la camorra, d’accordo, ma quale temporanea incarnazione di un male eterno simile a un vento nero da cui chiunque può essere investito. E ci sono gli animali parlanti (i pensieri del bufalo affidati a una voce off), ma più come in Esopo che in Orwell.

Sapere senza prove

E c’è l’Italia come luogo anche metafisico, c’è la volontà (e soprattutto la capacità) di sondare l’invisibile del nostro paese (ciò che la cronaca e i reportage non possono per loro natura raccontare, eppure esiste, ci appartiene), un compito a cui non pochi registi italiani si stanno eroicamente dedicando in questi anni, dalla Alice Rohrwacher di Le meraviglie, al Leonardo Di Costanzo di L’intervallo, al Michelangelo Frammartino di Le quattro volte, al Roberto Minervini della trilogia texana, a colui che (seppur con cifre e codici molto diversi) si può considerare il padre vivo di tutti loro: Franco Maresco.

Bella e perduta restituisce (le cose perdute nel mondo reale le ritroviamo trasfigurate tra i panorami di uno spirito che esiste) ciò che in fondo ancora ci appartiene, ma difficilmente viene mostrato in un film.

A proposito dei nostri guasti insinua il dubbio che (per dirla con Thomas Bernhard) “ogni malattia può essere definita malattia dell’anima”. Soprattutto, a saperci davvero scavare, nella wasteland della Terra dei fuochi di cui tutti siamo cittadini e viandanti c’è dolore ma anche paradossalmente molta più speranza e pietà di quanto il nichilismo della cronaca (e di tanta politica) vorrebbe farci credere.

Finalmente qualcuno torna a capire che, per un artista, arrivare a sapere senza prove è più importante che brandirle in nome della verità. In un caso si guarda. Nel primo – a rischio di smarrirsi molte volte – può capitare addirittura che si veda.

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