20 gennaio 2005 00:00

Quello che succede negli Stati Uniti ha un impatto enorme sul resto del mondo e viceversa: gli avvenimenti internazionali impongono limiti anche allo stato più potente. E influenzano la componente americana di quella che il New York Times – dopo le grandi manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq – ha definito la “seconda superpotenza”: l’opinione pubblica mondiale.

Oggi il mondo è in condizioni spaventose, ma sta comunque meglio di trent’anni fa: siamo molto meno disposti a tollerare le aggressioni, e viviamo in una situazione migliore rispetto a tanti altri parametri che tendiamo a dare per scontati. Da questa evoluzione si possono trarre alcune lezioni. Non sorprende che, via via che le popolazioni diventano più civili, i sistemi di potere ricorrano a mezzi sempre più estremi per tentare di controllare quella che Alexander Hamilton chiamava “la grande bestia”, cioè il popolo. Perché la grande bestia è davvero temibile.

La concezione della sovranità presidenziale fatta propria dall’amministrazione Bush è così estremistica che ha attirato critiche senza precedenti, anche dagli organi di stampa più equilibrati. Nel mondo del dopo 11 settembre, l’amministrazione si comporta come se la costituzione fosse sospesa: lo ha scritto Sanford Levinson, docente di diritto all’università del Texas, sul numero di Daedalus di quest’estate.

La solita giustificazione che suona più o meno “in tempo di guerra tutto è permesso” si ritrova, espressa diversamente, in questa massima: “Non esistono norme applicabili al caos”. Si tratta, fa notare Levinson, di una citazione del tedesco Carl Schmitt, il massimo filosofo del diritto vissuto nel periodo nazista, che Levinson definisce “la vera eminenza grigia dell’amministrazione Bush”.

Seguendo i suggerimenti del consigliere della Casa Bianca Alberto Gonzales (oggi nominato ministro della giustizia), l’amministrazione ha elaborato una “concezione dei poteri presidenziali che si avvicina molto ai poteri che Schmitt voleva accordare al Führer”, scrive Levinson. Di rado si sentono parole così dure venire dal cuore dell’establishment.

Questa concezione imperiale dei poteri del presidente è alla base delle politiche dell’amministrazione, che inizialmente ha giustificato l’invasione dell’Iraq presentandola come un atto di “autodifesa preventiva”. Ebbene, quell’attacco ha costituito una violazione dello statuto del tribunale di Norimberga – una delle basi su cui poggia la carta delle Nazioni Unite – in cui si legge che scatenare una guerra d’aggressione è “il supremo crimine internazionale, il quale si distingue da altri crimini di guerra in quanto contiene in sé il male universale”.

Da questa prima violazione sono derivati i crimini di guerra commessi ad Abu Ghraib e a Falluja, l’aggravarsi della malnutrizione fra i bambini iracheni registrato a partire dall’invasione e tutte le altre atrocità del conflitto.

La primavera scorsa, quando si è saputo che i giuristi del dipartimento della giustizia americano avevano tentato di dimostrare che il presidente poteva autorizzare l’uso della tortura, il preside della facoltà di giurisprudenza dell’università di Yale, Harold Koh, ha dichiarato al Financial Times: “Dire che il presidente ha il potere costituzionale di permettere la tortura equivale ad affermare che il presidente ha il potere costituzionale di commettere un genocidio”.

Riscoprire e innovare una lunga tradizione

Di fronte a questa situazione, qual è la risposta migliore? Gli Stati Uniti hanno una grande eredità di diritti e privilegi. Potremmo abbandonare questa tradizione e imboccare la facile strada del pessimismo, dicendo: “Rinuncio, perché non c’è più niente da fare”. Oppure possiamo usare questo bagaglio per diffondere una cultura democratica in cui i cittadini abbiano un autentico potere decisionale, e non solo sulle questioni politiche, ma anche sui temi cruciali dell’economia.

Non si tratta certo di idee radicali: le aveva già espresse con chiarezza anche John Dewey, il grande filosofo sociale americano del ventesimo secolo. Dewey osservava che fino a quando il “feudalesimo industriale” non fosse stato scalzato dalla “democrazia industriale”, la politica sarebbe rimasta “l’ombra proiettata dalle grandi imprese sulla società”.

Attingeva a una lunga tradizione di pensiero e di azione, che si è sviluppata all’interno della cultura della classe operaia fin dalle origini della rivoluzione industriale americana e ha avuto la sua culla nella regione di Boston. Queste idee sono ancora vive, e possono diventare una parte vitale delle nostre società, delle nostre culture e delle nostre istituzioni.

Ma, come nel caso di tante altre vittorie riscosse dalla giustizia e della libertà nel corso dei secoli, va detto che nulla accade da sé. Una delle lezioni più chiare che si possono trarre dalla storia, anche recente, è che i diritti non vengono mai concessi: si conquistano.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it