10 gennaio 2008 00:00

“Questo povero paese sta incassando un colpo dopo l’altro”, ha detto Peter Goossens in un’intervista rilasciata al New York Times il 26 settembre 2007. “Prima o poi crollerà”.

Il paese a cui si riferiva è la Somalia e Goossens dirige il Programma alimentare mondiale, che ormai sfama il 15 per cento dei somali, cioè 1,2 milioni di persone. “Ormai basta pochissimo, una piccola alluvione o una siccità, per far precipitare il paese nel baratro”, ha detto Goossens.

La Somalia, tormentata dalla guerra e dalla carestia, è assediata dall’interno e dall’esterno. Con il nuovo sistema di vigilanza rafforzato dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno riformulato il loro tentativo di controllare il Corno d’Africa (Gibuti, Etiopia, Eritrea e Somalia), che ritengono uno dei fronti della “guerra al terrorismo”. La crisi somala può quindi essere considerata uno dei danni collaterali della “guerra al terrorismo”.

A novembre, scrive il New York Times, l’Onu ha osservato che in Somalia c’era, rispetto al Darfur, “un tasso di malnutrizione più alto, un maggior numero di uccisioni e meno volontari delle organizzazioni umanitarie”. Eric Laroche, che dirige le operazioni umanitarie dell’Onu sul posto, sostiene che le Nazioni Unite non sono in grado di raggiungere la popolazione che muore di fame, di malattie e di violenza in Somalia.

“Se tutto questo stesse succedendo in Darfur, si farebbe un gran chiasso”, ha detto Laroche. “Ma quella della Somalia è un’emergenza dimenticata da anni”. Un’altra differenza è che della tragedia nel Darfur si può dare la colpa a un nemico ufficiale – il governo del Sudan e le sue milizie – mentre la responsabilità dell’attuale catastrofe somala, come di quelle che l’hanno preceduta, è fondamentalmente interna.

Nel 1992, dopo la caduta della dittatura delle milizie tribali e la successiva carestia, gli Stati Uniti mandarono migliaia di soldati a compiere un’ambigua “missione di soccorso” in appoggio alle organizzazioni umanitarie. Ma nell’ottobre del 1993, durante la “battaglia di Mogadiscio”, due elicotteri Black Hawk furono abbattuti dai miliziani provocando la morte di 18 soldati americani e di circa un migliaio di somali.

Le forze statunitensi furono ritirate con un grande spargimento di sangue somalo. La “missione di soccorso” lasciò il paese nelle mani dei signori della guerra. “A quel punto, gli Stati Uniti e buona parte del resto del mondo voltarono le spalle alla Somalia”, scrive il New York Times.

“Ma nell’estate del 2006 il mondo riprese a occuparsene, quando dal caos emerse un movimento islamista che assunse il controllo di quasi tutto il paese”, lasciando nelle mani del Governo di transizione federale (Gtf), riconosciuto dall’occidente, solo un’enclave ai confini con l’Etiopia. Durante questo breve periodo di potere, gli islamisti “non ci crearono nessun problema”, dice Laroche.

Ahmedou Ould Abdallah, rappresentante della Somalia all’Onu, definisce i sei mesi del loro governo “un’epoca d’oro”, l’unico periodo di pace in tanti anni. Ma nel dicembre del 2006 l’Etiopia invase la Somalia, con l’appoggio degli Stati Uniti, per imporre il regime del Gtf.

L’invasione del nemico storico della Somalia, l’Etiopia cristiana, ha provocato una forte resistenza, che ha portato alla crisi attuale.

Il motivo ufficiale della partecipazione degli Stati Uniti all’abbattimento del regime islamista da parte dell’Etiopia è la “guerra al terrorismo”, che ha generato solo atrocità e altro terrorismo. Senza considerare che le radici del regime fondamentalista islamico somalo risalgono a una fase precedente della guerra al terrore.

Subito dopo l’11 settembre gli Stati Uniti guidarono un intervento internazionale per chiudere Al Barakaat – un’agenzia per il trasferimento di denaro con sede a Dubai che gestiva anche le principali imprese somale – dicendo che finanziava il terrorismo. Quest’operazione fu giudicata dal governo e dai mezzi d’informazione statunitensi come uno dei grandi successi della guerra al terrorismo.

Il fatto che un anno dopo Washington sia stata costretta a ritirare le sue accuse infondate, invece, ha suscitato poco interesse. La Somalia fu molto penalizzata dalla chiusura di Al Barakaat.

Secondo l’Onu, nel 2001 l’organizzazione gestiva circa metà dei 500 milioni di dollari di rimesse del paese, “più di quanto la Somalia guadagni con tutte le altre attività economiche e dieci volte l’ammontare degli aiuti internazionali che riceve”. Al Barakaat aveva anche un ruolo centrale nell’economia, osserva Ibrahim Warde nel suo studio sulla “guerra economica al terrorismo” di Bush, The price of fear (Il prezzo della paura). L’inutile attacco a un paese già così fragile “ha probabilmente aiutato l’ascesa dei fondamentalisti islamici”, scrive Warde.

Il nuovo supplizio della Somalia rientra nel tentativo di Washington di prendere il controllo del Corno d’Africa e delle sue rotte commerciali, nel quadro di una campagna per assicurarsi il controllo delle fonti di energia che si trovano in Africa.

Oggi le risorse africane sono troppo preziose per essere lasciate a qualcun altro, in particolare alla Cina. Se la povera Somalia sta morendo di fame, è solo una conseguenza secondaria e irrilevante di un più grande progetto geopolitico.

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