“Se vuoi essere felice, fatti aiutare” è lo slogan di una nuova generazione di servizi di assistenza psicologica online che funzionano tramite sms, telefono e videochat. Peccato che, a quanto sembra, la felicità non sia l’unico risultato garantito dalla terapia.

Marie-Luise Schermuly-Haupt, Michael Linden e A. John Rush di recente hanno pubblicato uno studio, che ho trovato grazie all’ottimo blog Research Digest, e calcolano che, almeno per quanto riguarda la terapia cognitivo-comportamentale, il 43 per cento dei pazienti lamenta una serie di effetti collaterali indesiderati come angoscia, peggioramento dei sintomi o maggiori tensioni in famiglia. “Quindi la psicoterapia non è innocua”, concludono.

Questo tipo di ricerche è utile, ma la conclusione che ne traggono mette in risalto una convinzione diffusa, che a pensarci bene sembra davvero strana: perché mai qualcuno dovrebbe supporre che la psicoterapia sia innocua?

Questo mi ricorda la sorpresa di molti quando i mezzi d’informazione rivelano che anche la meditazione, un altro modo apparentemente garantito per essere felici, presenta dei rischi. Chi è all’inizio, soprattutto se ha subìto un trauma, a volte lamenta una sorta di “inondazione” emotiva: quando comincia a guardarsi dentro, e segue l’indicazione di concentrarsi sulle emozioni senza giudicarle, è soffocato da pensieri e sensazioni che fino a quel momento era riuscito a tenere sotto controllo (forse la rimozione non è il modo più sano per superare un trauma, ma può essere un sistema pratico per arrivare alla fine della giornata).

Se un martello è così potente da infilare un chiodo nel muro è anche in grado di massacrarci un dito

Anche chi medita al livello più avanzato ogni tanto lamenta quell’angoscioso senso di panico e mancanza di senso della vita noto con il nome di “notte buia”, determinato essenzialmente dal fatto che sta modificando la sua percezione della realtà.

Ma se la psicoterapia e la meditazione non fossero così potenti da avere effetti simili servirebbero a qualcosa? Se un martello è così potente da infilare un chiodo nel muro è anche in grado di massacrarci un dito. Non è che i benefici di questi interventi psicologici siano sopravvalutati, ma piuttosto che dipendono dalla loro capacità di penetrare in profondità nella nostra mente e di operare cambiamenti positivi, il che significa che possono anche operarne di negativi.

Il processo sta funzionando
Nessuno dubita di questo quando si parla di interventi di tipo chimico: il fatto che gli antidepressivi possono cambiare la vita di molte persone non esclude che per alcuni peggiorino le cose. Anche cambiare tipo di alimentazione può renderci più felici, o più infelici, soprattutto se passiamo al cibo spazzatura e alla vodka. Ma, a quanto sembra, è solo nel caso degli interventi psicologici diretti che ci sorprendiamo di scoprire che c’è anche un lato negativo.

Un altro problema, osservano gli autori dello studio, è stabilire cosa può essere considerato un effetto collaterale negativo. Secondo molti modelli sia di terapia sia di meditazione, un certo grado di angoscia dimostra che il processo sta funzionando, e come diceva Robert Frost, “l’unico modo per uscirne fuori è buttarsi dentro”. La sofferenza psicologica, ovviamente, è dolorosa (lo studio include tra gli effetti collaterali la rottura di rapporti personali, ma è facile immaginare casi in cui questo sarebbe un ottimo risultato). Questo, a sua volta, fa pensare che forse il nostro scopo non dovrebbe essere la “felicità”. Forse vedere la vita per quella che è realmente, anche se non c’è niente da festeggiare, è l’unico modo per darle un senso.

Io comunque continuo a essere d’accordo con Sigmund Freud quando diceva che il suo obiettivo era trasformare “la miseria nevrotica in ordinaria infelicità”, slogan che però non mi aspetto di trovare su nessun sito di terapia online.

Consigli di lettura
Talk is not enough. How therapy really works, un libro del 2001 dello psichiatra americano William Gaylin, è un resoconto di prima mano del motivo per cui il processo di solito funziona, ma qualche volta no.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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