28 maggio 2019 12:44

Ogni tanto, a un certo punto della giornata, una scossa ci ricorda che le vite interiori degli altri sono una terra profondamente straniera, dalla quale siamo banditi in modo permanente.

Questa è un’argomentazione solitamente usata per rafforzare gli inviti a essere più empatici: magari il vostro scontroso collega sta lottando con emozioni dolorose, magari il vostro coniuge è preda di un’ansia quotidiana più intensa di quanto possiate mai immaginare.

Ma questa estraneità si manifesta in realtà in maniera ancor più essenziale. Un nuovo studio su un argomento che sembrerebbe di natura tecnica – “la variazione genetica nella riserva di recettori olfattivi umani”– ci ricorda che anche la percezione olfattiva del mondo è diversa per ciascuno di noi. I ricercatori hanno scoperto che una singola mutazione genetica determina molte di queste differenze, come il fatto che la barbabietola abbia un odore (e un sapore) orrendo di terreno sporco per alcune persone, oppure che altre non riescano a sentire l’odore affumicato del whisky, o ancora che alcune riescano a identificare il mughetto in un profumo.

Nuova dose di crisi esistenziale
Anche questo genere di ricerca, però, non può fare molto per scavare una breccia nei muri che ci dividono. La sensazione è che neanche il miglior ricercatore del pianeta possa capire – realmente e profondamente – come percepisco la vita, a meno che quel ricercatore non sia io stesso. Immaginate, per esempio, che il caffè abbia per voi il sapore che ha per me il succo di carota, e viceversa. Come potremmo mai scoprirlo? Potremmo continuare ad amare il caffè e odiare il succo di carote, senza mai scoprire che intendiamo due cose opposte – ovvero che quel che odio a proposito del succo di carote è esattamente quel che voi adorate a proposito del caffè.

I filosofi definiscono questa cosa il problema dei “qualia invertiti”. Non è qui il caso di attardarsi sulle loro dispute di lunga data (e nelle quale hanno dato prova di sorprendente irascibilità). Ma il loro punto fondamentale, per quanto inquietante, appare difficile da negare: quando i nostri universi personali differiscono profondamente, possiamo anche discutere per ore, o svolgere qualsiasi tipo di altra attività nel mondo esterno, e le cose rimarrebbero come sono.

Ho deciso di definirmi afantasico, perché la cosa mi fa apparire più interessante

Il giorno dopo essermi imbattuto nello studio sull’olfatto, ho ricevuto una dose supplementare di crisi esistenziale, ascoltando un episodio del podcast PsychCrunch, che mi ha spinto a chiedermi se fossi per caso “afantasico”. Appartengo, dunque, a quella minoranza di persone incapaci di raffigurarsi immagini con l’occhio della mente? Ho sempre pensato di essere in grado di farlo, ma, ascoltando altre persone che descrivono questa esperienza, ne sono un po’ meno sicuro. Mi chiedo se, per tutto questo tempo, io non abbia invece semplicemente pensato a dei concetti. Quando chiudo gli occhi quello che vedo è, perlopiù, oscurità. Quelle che chiamavo “immagini mentali” non sembrano molto diverse da altri tipi di pensieri. È lo stesso per voi?

Un dettagliato controinterrogatorio eseguito con vari amici ha gettato un po’ di luce sulla faccenda. Ma anche in questo caso, siamo proprio sicuri che lo abbia fatto? Alcuni hanno descritto le loro immagini mentali come estremamente vivide, cosa che le mie sicuramente non sono, ammesso che esistano. Ma, tanto per cominciare, non ho idea se stiamo usando gli stessi criteri di vividezza. Ancora una volta, anche se i ricercatori hanno fatto alcuni importanti primi passi nello studio di questa sindrome, esiste in fin dei conti un divario che non può essere colmato.

Non sono sicuro di cosa implichi la comprensione di tutte queste cose, se non il ricordarsi di non fare mai l’errore di credere di avere la minima idea di cosa provino gli altri. Ma nel frattempo ho deciso di definirmi afantasico comunque, perché la cosa mi fa apparire più interessante.

Almeno ai miei occhi. Non ho idea di cosa ne pensiate voi.

Da leggere
In The scent of desire (L’odore del desiderio), Rachel Herz esplora il nostro senso più trascurato spiegando, tra l’altro, di come le persone possano essere spinte a identificare, in uno stesso composto chimico, l’odore del parmigiano oppure del vomito.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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