17 marzo 2016 18:40

Non è una novità, il cinema offre spesso occasioni per parlare di corsi e ricorsi. Anche se ormai i titoli dei film si ripetono e le idee a Hollywood sembrano girare in un circuito chiuso, è comunque curioso che a poco meno di un mese dall’Oscar a Spotlight arriva un altro film sul giornalismo. Truth di James Vanderbilt racconta un caso che qualche anno fa ha messo fine alla carriera di un’istituzione del giornalismo statunitense, Dan Rather. Ma se Spotlight mostrava come una grande inchiesta può mettere sottosopra una comunità intera, Truth mette in discussione i rapporti tra stampa e potere politico, ed è un terreno forse più scivoloso. Al centro c’è la relazione sentimentale che gli americani hanno con il giornalismo, che è qualcosa di molto più sacro di quello che pratichiamo in Italia dove fare il giornalista (con buona pace di The Pills) è sempre meglio che lavorare.

Truth.

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Rather, interpretato da Robert Redford, per una quarantina d’anni è stato un volto della Cbs, dall’omicidio di Kennedy ad Abu Ghraib. Poi nel 2004, nel pieno della campagna elettorale che avrebbe portato alla rielezione di George W. Bush alla Casa Bianca, insieme alla sua producer, Mary Mapes, che nel film è interpretata da Cate Blanchett, tirò fuori una storia su un presunto trattamento di favore avuto da George W. durante il servizio militare. La storia, si scoprì, non aveva basi abbastanza solide e… il resto è storia (del giornalismo radiotelevisivo statunitense) e non vogliamo fare spoiler. Truth non dà un giudizio definitivo sulla vicenda (che nei tribunali statunitensi è andata avanti per anni), ma è evidente chi sono gli eroi e chi i cattivi, anche senza snocciolare particolari teorie del complotto. Sembra molto azzeccata l’idea di affidare il ruolo di Rather a Robert Redford: quello che per molti americani è un mostro sacro interpretato da un altro mostro sacro. Anche Cate Blanchett nella parte della donna forte ma fragile come al solito funziona. Li possiamo apprezzare anche nell’anatomia di una scena, commentata da James Vanderbilt.

La corte.

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Il film da non perdere, secondo me, è un altro. E parlo di La corte di Christian Vincent. Racconta alcuni giorni nella vita di un giudice francese, Michel Racine, interpretato da Fabrice Luchini. Il severo giudice Racine conduce una vita tutto sommato noiosa, tra stanze d’albergo e corti di giustizia dove l’inesorabile scansione delle procedure giudiziarie quasi soffoca crimini efferati e miserie umane lancinanti. A scuotere l’impassibile giudice ci pensa Birgit, una giurata, interpretata da Sidse Babett Knudsen, che il Racine aveva incontrato anni prima in un momento molto delicato della sua vita. Il film passa con noncuranza dalla corte d’assise a un bar dove il giudice apre il suo cuore a Birgit. A tenere insieme il tutto c’è un’interpretazione magistrale di Fabrice Luchini, coppa Volpi all’ultima mostra di Venezia.

Brooklyn.

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In Brooklyn, sceneggiato da Nick Hornby, Saoirse Ronan interpreta Ellis, una giovane irlandese che si trasferisce negli Stati Uniti all’inizio degli anni cinquanta. Ellis è molto carina, lavora in un grande magazzino e s’innamora di un giovane italiano, Tony. Ce la farà ad assicurarsi una vita felice così lontano dalla verde patria, nonostante i suoi parenti rimasti laggiù vogliano tanto che lei torni? Chi è in cerca di qualcosa di edificante e leggermente brillante si può accomodare in sala.

Frankenstein.

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Scomodo, scomodissimo anzi, Frankenstein (o Frank3n5t31n) che, a proposito di corsi e ricorsi, batte sul filo di lana Victor Frankenstein (in uscita a inizio aprile): come a dire non bastava un nuovo adattamento della storia di Frankenstein, ne servono almeno due. Comunque, nel Frankenstein di Bernard Rose il mostro riprende vita a Los Angeles, nei giorni nostri. La sua parabola è ancora più triste di quella del Frankenstein classico, destinato alla solitudine dal suo aspetto orribile. Perché Adam, riportato in vita da una coppia di coniugi scienziati (Victor ed Elizabeth Frankenstein), alla nascita è bello. Poi però la sua carne comincia a corrompersi e i due coniugi decidono di disfarsene. Povero Adam, diventa ogni giorno più repellente. Ma in linea con il romanzo di Mary Shelley i nodi prima o poi vengono al pettine. Rose ha un discreto curriculum, di horror e non, e per rinnovare la storia ha trovato una chiave tosta, raccapricciante. Chi lo conosce per i suoi horror probabilmente apprezzerà. Gli altri faranno bene a portarsi in sala una pomata contro il prurito al posto dei pop corn.

The lesson

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The lesson. Scuola di vita è un film bulgaro del 2014 sulla crisi: un’insegnante di inglese è fissata con il rigore morale dei suoi studenti e si arroga il ruolo di maestra di vita. Il contrappasso arriva con la banca che vuole portarle via la casa e la prof scopre a sue spese che la retta via non è sempre praticabile. Grazie al suo realismo alla Dardenne questa parabola bulgara ha vinto parecchi premi in giro per il mondo. Arriva finalmente anche in Italia e come spesso accade in questi casi non sarà facile trovarlo nel multiplex sotto casa.

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In quota pasquale arriva anche Risorto, con Joseph Fiennes che fa un centurione romano piazzato da Pilato a fare la guardia al sepolcro del nazareno. Kevin Reynolds torna sul luogo del delitto. Dopo aver diretto Kevin Costner nei panni di Robin Hood, probabilmente il regista di Fandango, Rapa Nui e Waterworld subisce una legge del contrappasso particolarmente spietata: è condannato a fare film con attori inadatti al ruolo scelto per loro. E così, dopo Guy Pearce che fa Fernand Mondego in Montecristo e James Franco improbabile Tristano in Tristano & Isotta ecco Fiennes che fa il centurione in Galilea. Che fine avrà fatto il corpo di Gesù? L’indagine è aperta.

In uscita anche Kung Fu panda 3 di Alessandro Carloni e Jennifer Yuh eVita, cuore, battito di Sergio Colabona.

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