Il 12 giugno la Commissione europea ha annunciato che dal 4 luglio i dazi sulle importazioni di auto elettriche fabbricate in Cina subiranno un rincaro medio del 25 per cento, passando dal 10 per cento a un massimo del 48 per cento. La misura, che arriva alla fine di un’indagine antidumping aperta nel 2023, potrebbe produrre entrate per più di due miliardi di euro all’anno, ma allo stesso tempo dare inizio a una costosa guerra commerciale con il governo di Pechino, come teme la Germania, fin dall’inizio contraria alla decisione insieme alla Svezia e all’Ungheria. Berlino, infatti, vuole tutelare le sue case automobilistiche, che producono e vendono molte vetture in Cina. È nella stessa situazione la Svezia, dove il maggior produttore nazionale, la Volvo, è controllata dalla cinese Geely. L’Ungheria, invece, è da tempo la principale meta degli investimenti cinesi nell’auto elettrica.

A Bruxelles ha prevalso chi sostiene che i produttori di auto elettriche cinesi beneficiano di sussidi alla produzione penalizzanti per i concorrenti europei: secondo la Commissione assicurano prezzi inferiori in media del 20 per cento. Un recente studio dell’Institut für Weltwirtschaft di Kiel, in Germania, prevedeva che un dazio aggiuntivo del 20 per cento avrebbe ridotto le importazioni di auto elettriche cinesi del 25 per cento.

Nel 2023 la Cina, che attualmente è il principale partner commerciale dell’Unione europea, ha esportato nel vecchio continente auto elettriche per dieci miliardi di euro, raddoppiando in un anno la sua quota di mercato. In questi mesi Pechino ha minacciato dure rappresaglie commerciali per convincere i governi europei a opporsi all’aumento dei dazi. Ora la Germania, la Svezia e l’Ungheria devono assicurarsi l’appoggio di almeno altri undici paesi per bloccare la decisione di Bruxelles. Secondo gli osservatori, la Repubblica Ceca e la Slovacchia dovrebbero aggiungersi agli oppositori. Tra i principali sostenitori dei dazi, invece, ci sono la Francia e la Spagna. Gli stati dell’Unione europea devono pronunciarsi sull’aumento entro il 2 novembre 2024: se approvato, sarà valido per cinque anni.

L’effetto più immediato sarà un rialzo del prezzi delle auto elettriche cinesi e allo stesso tempo una minore pressione sulle aziende europee nella rincorsa alle concorrenti del paese asiatico. Gli esperti, ovviamente, si aspettano la reazione di Pechino, che potrebbe ridurre le sue importazioni da molti paesi dell’Unione europea, aggravando il conflitto commerciale. Alcuni osservano inoltre che, mentre negli Stati Uniti i sussidi per l’acquistodi auto elettriche valgono solo per quelle fabbricate nel paese, in Europa gli aiuti pubblici si applicano anche a quelle prodotte in Cina, vanificando in buona parte l’effetto dei dazi.

Secondo alcuni osservatori, inoltre, si rischia di rallentare l’adozione di una tecnologia fondamentale per la transizione energetica e di mantenere in vita il motore a combustione oltre la soglia del 2035 decisa dall’Unione europea. La Germania, in particolare, potrebbe cogliere l’occasione per chiedere un rinvio della scadenza. Questo alimenterebbe l’idea, già diffusa nell’opinione pubblica, che la svolta verde è troppo gravosa. Non è un caso che alle ultime elezioni europee siano aumentati i consensi verso partiti convinti che l’ambientalismo penalizzi l’industria e i posti di lavoro, e faccia aumentare i prezzi di molti prodotti. La crescita dei partiti nazionalisti e il timore degli altri di perdere consensi, insomma, potrebbero favorire una brusca retromarcia nel piano di decarbonizzazione dell’Unione europea.

Dall’altra parte dell’oceano l’amministrazione di New York, negli Stati Uniti, il 5 giugno ha posticipato a data da destinarsi l’introduzione delle tariffe per entrare in città con l’auto. Il piano, che sarebbe dovuto partire il 30 giugno, prevede pedaggi più alti nelle ore di punta – tra le 5 e le 21 nei giorni feriali e dalle 9 alle 21 nel fine settimana – con l’obiettivo di ridurre i traffico e quindi migliorare la qualità dell’aria. Kathy Hochul, la governatrice dello stato di New York, ha spiegato che il piano avrebbe comportato “conseguenze non volute per i cittadini”.

Hochul ha dichiarato che l’idea è stata concepita prima della pandemia di covid-19, quando i pendolari si mettevano in macchina cinque giorni alla settimana, c’era meno criminalità e il turismo fioriva: “Oggi tutto è cambiato e bisogna adeguarsi alla realtà. Non permetterò che questa delicata ripresa sia messa a rischio. Molte persone possono lavorare da casa e venire in città il sabato con la famiglia per il teatro. E in un periodo in cui l’inflazione si fa sentire credo che molti preferiscano fare così. Un costo aggiuntivo potrebbe spingere i residenti ad andare a vivere o a lavorare altrove, rallentando ulteriormente la ripresa di New York”. Non a caso un sondaggio di aprile ha rivelato che il 63 per cento dei newyorchesi è contrario al piano.

Sempre negli Stati Uniti il 7 giugno l’amministrazione guidata da Joe Biden ha ritirato la proposta di inasprire i livelli di efficienza nei consumi di carburante per i suv e i furgoncini. Secondo gli esperti, questa scelta comporterà duecento milioni di tonnellate di emissioni in più entro il 2050. Il governo sostiene che i produttori di automobili avranno più risorse per investire nell’elettrico, garantendo nel lungo periodo una riduzione notevole delle emissioni nocive. Secondo la Alliance for automotive innovation, un’organizzazione che difende gli interessi del settore automobilistico, la proposta originaria di Washington era così severa che i produttori di auto non sarebbero stati in grado di rispettarla, subendo multe per 14 miliardi di dollari.

Anche in un paese molto lontano dall’Europa ci sono dei ripensamenti. L’11 giugno il governo della Nuova Zelanda ha annunciato che il settore agricolo, responsabile della metà delle emissioni di gas serra del paese, sarà escluso dal sistema nazionale di carbon pricing, cioè dalla tassazione delle emissioni. Nei mesi scorsi gli agricoltori neozelandesi avevano protestato contro l’idea di far pagare chi inquina a partire dal 2025, come aveva deciso il governo progressista di Jacinda Adern, che si è dimessa nel febbraio 2023. L’esecutivo conservatore guidato da Christopher Luxon, in carica dall’ottobre 2023, si era già impegnato a ritardare l’entrata in vigore del carbon pricing almeno fino al 2030.

“Vogliamo raggiungere gli obiettivi legati alla crisi climatica senza far chiudere le aziende agricole”, ha dichiarato il ministro dell’agricoltura Todd McClay. “Non ha senso far scappare la produzione e i posti di lavoro all’estero, in paesi che fanno più emissioni ma forniscono al mondo il cibo di cui ha bisogno”. Le cifre in gioco sono imponenti, visto che l’agricoltura costituisce il 44 per cento delle esportazioni neozelandesi. Ora il governo istituirà un gruppo di studio per ridurre le emissioni di metano prodotte dal bestiame, in particolare durante la digestione, che ammontano al 40 per cento del totale nazionale (la Nuova Zelanda ha cinque milioni di abitanti, ma dieci milioni di bovini e 26 milioni di pecore).

Il governo Luxon ha anche deciso di eliminare il divieto di fare trivellazioni offshore per la ricerca di petrolio e gas, sostenendo che la misura penalizza la sicurezza energetica nazionale, già messa a dura prova dal declino delle riserve di gas naturale. Secondo la ministra delle risorse Shane Jones, il gas è “fondamentale” per l’economia nei periodi di picco dei consumi elettrici, quando non si può fare affidamento sull’offerta delle fonti rinnovabili, come il vento e il sole, perché è troppo discontinua.

La fine del divieto, introdotto nel 2018 dal governo Ardern, sarà proposta con un emendamento al Crown minerals act nella seconda metà del 2024. Altre misure di tutela dell’ambiente saranno cancellate gradualmente per sfruttare i giacimenti minerari della costa occidentale, dove ci sono molte aree naturali protette, come le foresta pluviali. La ministra Jones ha presentato un piano per raddoppiare le esportazioni di minerali da uno a due miliardi di dollari entro il 2035.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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