23 gennaio 2020 12:07

Gli eventi attorno all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani hanno portato alla luce le due principali forze ideologiche che oggi si scontrano in Medio Oriente: la “resistenza” antimperialista dell’Iran e dei suoi alleati arabi e la “rivoluzione” per la libertà di chi protesta all’interno di quegli stessi paesi.

La prima si è manifestata nelle città arabe e iraniane durante gli immensi cortei funebri per Soleimani e i suoi colleghi, a cui hanno partecipato molte più persone di quelle richiamate dalle consuete proteste di propaganda istituzionale. Queste esternazioni di cordoglio e rabbia in Iran, in Iraq, in Libano e sporadicamente altrove sono una manifestazione della dinamica politica fondamentale (quella che per loro è la “resistenza”) che guida l’Iran e i suoi alleati e che influenza molti sviluppi regionali.

Dopo una breve pausa (dovuta allo choc delle uccisioni, al rispetto per i morti, alla diffusa rabbia antiamericana, al timore di un conflitto più ampio, alla tanta pioggia, e all’ammissione di Teheran del proprio errore nell’abbattimento dell’aereo civile ucraino) è riemersa la seconda dinamica chiave della regione: le manifestazioni popolari per la libertà e il pluralismo democratico sono ricominciate in quegli stessi territori (Iran, Iraq e Libano) dove grandi folle hanno pianto Soleimani e giurato di tenere testa agli Stati Uniti e ai loro alleati.

Coesistenza di forze
Queste due forze oggi sono in lotta per definire l’identità e le politiche del Medio Oriente per i decenni a venire. La “resistenza” (muqawama) è il modo in cui gli arabi e gli iraniani reagiscono contro gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati conservatori come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. La “rivoluzione” per le libertà democratiche, la giustizia sociale e il pluralismo, esplosa nei paesi arabi e in Iran a partire dalle rivolte del 2010-2011, è il modo in cui tenaci cittadini comuni tentano di rimuovere i governi autocratici, incompetenti o corrotti che considerano responsabili del peggioramento delle condizioni di vita e della negazione dei diritti.

Queste due forze sono coesistite per anni in sfere separate, ma oggi si scontrano apertamente e direttamente in Iran, Iraq, Siria e Libano, con le truppe della “resistenza” che tentano di sconfiggere con la forza le proteste “rivoluzionarie”.

La “resistenza”, la più antica delle due, dagli anni ottanta ha definito le politiche dell’Iran e dei suoi partner strategici arabi, cioè Hezbollah, Hamas, la Siria, Ansarullah (gli houthi), le Forze di mobilitazione popolare in Iraq e in Siria e altri gruppi minori. Anche le principali tendenze dell’islam politico non violento, come i Fratelli musulmani, “resistono” contro le minacce politiche e culturali che l’occidente e Israele pongono alle società arabo-islamiche, così come i gruppi nazionalisti e progressisti della regione che si ritrovano sotto questo stesso ombrello.

La missione principale del generale Soleimani era di sviluppare una rete di alleati arabi dell’Iran

Subito dopo la rivoluzione islamica del 1979 l’Iran ha definito e messo in atto la strategia fondamentale della resistenza, costruendo un potenziale tecnico-militare tra i suoi alleati arabi. Questo permette alla Repubblica islamica di compiere operazioni in tutto il Medio Oriente attraverso i suoi partner e alleati arabi, che disturbano, combattono o dissuadono i loro nemici comuni nei territori confinanti, prima che la battaglia raggiunga l’Iran stesso.

Questi alleati usano tutto l’arsenale di strumenti da guerra asimmetrica dell’Iran (tra cui missili, potenziale offensivo cibernetico, droni da attacco e sistemi di comunicazione e sorveglianza) per combattere Israele (nel caso di Hamas e Hezbollah) o gli arabi conservatori come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (nel caso degli houthi). La missione principale del generale Soleimani era di sviluppare questa rete di alleati arabi dell’Iran.

Abili burattini
Chi li critica nel mondo arabo, però, la considera un’esportazione egemonica di Teheran della sua rivoluzione islamica, mirata a intrecciare una rete di abili burattini sotto il suo controllo. Soleimani è stato in grado di sostenere così tanti alleati arabi perché molti siriani, libanesi, iracheni, yemeniti e palestinesi avevano sofferto pesantemente a causa delle politiche di guerra e di occupazione degli Stati Uniti, di Israele e dei conservatori arabi. Erano così deboli e vulnerabili che si sono uniti di buon grado al movimento di ispirazione islamista guidato dall’Iran, come atto di autoconservazione.

L’ethos dell’autoproclamato “asse della resistenza” è di opporsi alle minacce straniere e rifiutare di piegarsi alle richieste degli Stati Uniti e di Israele, anche a costo di una guerra o di logoranti sanzioni. Eppure, l’accordo nucleare dell’Iran con gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Francia, la Cina e la Russia e gli accordi e i cessate il fuoco indiretti di Hezbollah con Israele mostrano la disponibilità delle forze della resistenza a relazionarsi con i nemici sul piano politico, ma solo sulla base di un eguale rispetto per i diritti di entrambe le parti.

Molti manifestanti hanno chiarito che la loro opposizione è rivolta contro il potere corrotto e contro l’influenza straniera

Saranno gli storici a decidere se la “resistenza” sia stata un eroico successo “antimperiale” o una ingenua fantasticheria. I suoi difensori sostengono che abbia cacciato Israele dal Libano meridionale e da Gaza, raggiunto la deterrenza strategica tra Israele e Hezbollah, costretto gli Stati Uniti e i suoi alleati ad accettare l’accordo nucleare, permesso all’Iran di sopravvivere a pesanti sanzioni, che abbia salvato il governo di Assad in Siria e ha respinto la minaccia del gruppo Stato islamico, e affermano che ora possa sbattere gli Stati Uniti fuori dell’Iraq.

Secondo i suoi oppositori queste conquiste sono state raggiunte a un prezzo brutale per gli arabi e gli iraniani, lasciando interi paesi nella devastazione economica e ambientale, sotto dittature fatte di imponenti gerarchie, che limitano le libertà e i diritti umani e opprimono chi protesta pacificamente. Alcuni temono anche che la cultura della resistenza riserverà loro solo un futuro di guerra permanente e di disagio economico.

La difficile rivoluzione
Nell’ultimo decennio le proteste “rivoluzionarie” in corso hanno fatto tremare la regione. Sono state guidate da una generazione giovane che ha fatto le spese del malgoverno economico e del crescente autoritarismo di quella che considera un’élite politica preoccupata più del proprio arricchimento che del benessere della propria gente. Questa generazione ha deciso di ribellarsi contro dei regimi che reputa per lo più illegittimi e tenuti in piedi da forze esterne, e che a causa della loro incompetenza sono incapaci di soddisfare i bisogni essenziali dei propri cittadini.

A milioni sono scesi nelle strade, sfidando la violenta repressione, e chiedendo riforme o un cambiamento totale dei sistemi di governo. I manifestanti arabi e iraniani vogliono avere voce in capitolo in politiche governative che proteggano i diritti civili e perseguano la giustizia sociale, e vogliono mettere fine agli attuali sistemi di capitalismo clientelare che hanno distrutto la classe media e generato povertà e marginalizzazione su vasta scala.

Nel fare ciò, alcuni di questi movimenti di protesta sono arrivati a scontrarsi frontalmente con regimi sostenuti da Stati Uniti, Israele e dai suoi alleati arabi conservatori, e altri sono entrati in conflitto con regimi sostenuti dall’Iran e dai suoi alleati locali. Nel primo caso sono stati screditati come islamisti ed estremisti; nel secondo caso come collaboratori degli Stati Uniti e di Israele.

Libertà, uguaglianza, dignità
Ma molti manifestanti rivoluzionari hanno chiarito che la loro opposizione è rivolta non solo contro il potere corrotto e incapace di casa propria, ma anche contro l’influenza straniera sia statunitense sia iraniana. Questo sentimento è stato esemplificato da una dichiarazione diffusa l’11 gennaio dagli studenti iraniani in mobilitazione all’università AmirKabir (l’ex Politecnico) di Teheran, nel quale si dice: “L’unica via d’uscita dall’attuale crisi è rifiutare contemporaneamente sia il dispotismo interno sia l’arroganza imperialista. Abbiamo bisogno di una politica che rivendichi sicurezza, libertà ed eguaglianza non solo per un gruppo o una classe esclusiva, ma che intenda questi diritti come inalienabili e per tutto il popolo”.

Mentre l’intero universo della “resistenza” in questo momento storico si dispiega in tutto il Medio Oriente, alla bandiera che islamisti e nazionalisti arabi avevano rivendicato in esclusiva per la loro battaglia contro le minacce di Stati Uniti, Israele e dei conservatori arabi oggi si aggiunge una “resistenza” indigena interna da parte di cittadini arabi e iraniani che sfidano i propri governi chiedendo libertà, uguaglianza e dignità.

Le élite dominanti arabe e iraniane e i loro cittadini oggi si combattono e si fronteggiano apertamente, nel tentativo di definire l’identità e le politiche dei propri paesi. Questa è probabilmente la battaglia ideologica più significativa per il Medio Oriente da quando un secolo fa fu instaurato il suo sistema di stati.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito su Al Jazeera.

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