31 ottobre 2020 09:57

Cosa faranno gli stati di fronte all’aumento del debito pubblico generato dalla crisi del covid-19? Per molti la risposta è scontata: le banche centrali si faranno carico di una parte crescente del debito e tutto sarà risolto. In realtà le cose sono più complicate. Stampare moneta non basterà. Prima o poi anche i ricchi saranno chiamati a contribuire.

Ricapitoliamo. Nel 2020 la scelta di stampare moneta ha assunto proporzioni senza precedenti. Il bilancio della Federal reserve, la banca centrale statunitense, è passato dai 4.159 miliardi di dollari del 24 febbraio ai 7.151 miliardi del 12 ottobre, con un’iniezione monetaria pari a quasi tremila miliardi di dollari in sette mesi, un fatto senza precedenti. Il bilancio dell’Eurosistema (la rete di banche centrali guidata dalla Bce) era di 4.692 miliardi di euro il 28 febbraio e di 6.705 miliardi il 2 ottobre, con una crescita di duemila miliardi. Ormai vale circa il sessanta per cento del pil dell’eurozona.

A cosa serve tutto questo denaro? Nei periodi di calma, le banche centrali si accontentano di erogare prestiti a breve termine per garantire la liquidità del sistema. Dal momento che le entrate e le uscite delle banche private non si riequilibrano mai nello stesso momento, le banche centrali prestano temporaneamente delle somme che gli istituti rimborsano in seguito. Dopo la crisi del 2008 le banche centrali hanno cominciato a prestare denaro con scadenze sempre più lunghe (prima settimane, poi mesi, poi anni) per rassicurare gli investitori, terrorizzati all’idea che i loro compagni di gioco potessero fallire.

Se si continua a stampare moneta e ad acquistare titoli finanziari viene dopato il valore azionario e immobiliare. E i ricchi diventano sempre più ricchi

Il lavoro è stato intenso, dato che, senza una regolamentazione adeguata, negli ultimi decenni la finanza è diventata un gigantesco casinò. Tutti hanno dato e preso denaro in prestito in proporzioni mai viste, al punto che il totale di attivi e passivi delle finanze private detenute da banche, aziende e famiglie oggi supera il mille per cento del pil nei paesi ricchi, rispetto al duecento per cento negli anni settanta. Anche i patrimoni reali (cioè quelli del mercato immobiliare e delle aziende) sono cresciuti molto, passando dal trecento per cento al cinquecento per cento del pil, anche se molto meno rapidamente. In un certo senso i bilanci delle banche centrali non hanno fatto altro che seguire (in ritardo) l’esplosione dei bilanci privati, per preservare la loro capacità d’azione di fronte ai mercati. Grazie al loro nuovo attivismo le banche centrali hanno acquistato una quota crescente di titoli di debito pubblico, portando i tassi d’interesse vicino allo zero. All’inizio del 2020 la Bce deteneva il venti per cento del debito pubblico dell’eurozona, ed entro la fine dell’anno potrebbe arrivare a quasi il trenta per cento. Negli Stati Uniti c’è una situazione simile. È improbabile che un giorno la Bce o la Federal Reserve decidano di rimettere questi titoli sul mercato o di esigerne il pagamento, quindi potremmo stabilire fin da subito di non conteggiarli più nel totale del debito pubblico. Sarebbe meglio dare una certezza giuridica a questa garanzia, ma servirebbe un po’ di tempo.

Dovremmo seguire questa direzione, immaginando che in futuro le banche centrali possiederanno il cinquanta e poi il cento per cento del debito pubblico e così alleggeriranno il carico finanziario sugli stati? Da un punto di vista tecnico non ci sarebbero problemi. La difficoltà sta nel fatto che, se da un lato questa politica risolve la questione del debito pubblico, dall’altro crea altre difficoltà, in particolare in termini di aumento della disuguaglianza. Se si continua a stampare moneta e ad acquistare titoli finanziari viene dopato il valore azionario e immobiliare, con il risultato che i più ricchi diventano sempre più ricchi. Per i piccoli risparmiatori i tassi d’interesse nulli o negativi non sono necessariamente una buona notizia. Ma chi ha i mezzi per prendere in prestito denaro a tassi bassi può fare grandi profitti. Secondo la rivista Challenges tra il 2010 e il 2020 il valore dei cinquecento maggiori patrimoni francesi è passato da 210 a 730 miliardi di euro. Una situazione simile è insostenibile.

Le cose andrebbero diversamente se lo stampare moneta, invece di alimentare la bolla finanziaria, finanziasse un rilancio sociale ed ecologico. Questo permetterebbe di alleggerire il debito e di ridurre le disuguaglianze, d’investire nei settori utili per il futuro e di spostare l’inflazione verso i salari, i beni e i servizi. Non si tratta però di una soluzione miracolosa. Appena l’inflazione tornerà a essere sostanziale (3 o 4 per cento all’anno) sarà necessario rallentare la creazione monetaria e ricorrere a strumenti fiscali. La storia lo dimostra: stampare moneta non basta, perché genera delle conseguenze incontrollabili dal punto di vista della distribuzione della ricchezza. Furono i prelievi eccezionali sui più ricchi a riportare sotto controllo i debiti pubblici del dopoguerra e a creare il patto sociale dei decenni successivi. Impegniamoci perché succeda di nuovo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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