31 luglio 2021 10:01

Mentre il Partito comunista cinese (Pcc) celebra i suoi cento anni di esistenza, i paesi occidentali faticano a definire il loro atteggiamento nei confronti del regime di Pechino. Diciamolo chiaramente: bisognerebbe smetterla con l’arroganza occidentale e promuovere un nuovo orizzonte di emancipazione e di uguaglianza a livello mondiale, attraverso una nuova forma di socialismo democratico e partecipativo, ecologista e postcoloniale. Se invece i paesi occidentali continueranno a sentirsi superiori e a difendere un modello di capitalismo esasperato e fuori dal tempo, avranno difficoltà a rispondere alla sfida cinese.

Il regime di Pechino ha molte fragilità. Secondo il Global Times, quotidiano legato al Pcc, la democrazia in versione cinese sarebbe superiore al supermercato elettorale occidentale perché affida il destino del paese a un’avanguardia motivata e determinata, al tempo stesso selezionata e rappresentativa della società (il Pcc ha 90 milioni di iscritti, il 10 per cento della popolazione), e quindi più impegnata a servire l’interesse generale rispetto all’elettore occidentale, volubile e influenzabile.

Di fatto, però, il regime si avvicina sempre di più a una dittatura digitale, talmente perfetta che nessuno vuole somigliarle. Il modello di governo all’interno del partito è ancora meno convincente visto che non lascia alcuna traccia all’esterno, mentre tutti possono osservare il sistema di sorveglianza generalizzata attivo sui social network, la repressione dei dissidenti e delle minoranze, lo stravolgimento del processo elettorale a Hong Kong e le minacce contro Taiwan.

Si potrebbe ridurre il debito pubblico rapidamente aumentando le imposte sui patrimoni privati più grandi

A tutto questo bisogna aggiungere la forte crescita delle disuguaglianze, e il sentimento d’ingiustizia sociale non potrà essere sempre risolto con qualche eliminazione mirata. Ma, nonostante queste debolezze, Pechino ha dei punti di forza: quando arriveranno le catastrofi climatiche potrà facilmente sottolineare le responsabilità delle vecchie potenze, che rappresentano una parte ridotta della popolazione mondiale ma hanno prodotto quasi l’80 per cento delle emissioni di anidride carbonica accumulata dall’inizio dell’era industriale.

Inoltre la Cina ricorda che si è industrializzata senza fare ricorso allo schiavismo e al colonialismo, di cui ha subìto le conseguenze. Non ha l’eterna arroganza dei paesi occidentali, sempre pronti a dare lezioni al mondo in materia di giustizia e di democrazia ma incapaci di affrontare disuguaglianze e discriminazioni, e disposti a compromessi con gli oligarchi. Dal punto di vista economico e finanziario, lo stato cinese ha risorse considerevoli, molto superiori ai suoi debiti, cosa che gli permette di avere una politica ambiziosa sul piano interno e su quello internazionale, in particolare sugli investimenti nelle infrastrutture e nella transizione energetica.

Attualmente il potere pubblico ha il 30 per cento di tutto quello che si può possedere in Cina (controlla il 10 per cento del settore immobiliare e il 50 per cento delle aziende), il che corrisponde a una struttura di economia mista non lontana da quelle viste in occidente durante gli anni del boom economico, tra il 1945 e il 1975. Al contrario è incredibile constatare che i principali stati occidentali si ritrovano oggi con risorse patrimoniali quasi nulle o addirittura in debito. Incapaci di far quadrare i conti pubblici (serviva una maggiore pressione fiscale sui contribuenti più ricchi), questi paesi si sono indebitati sempre di più e hanno messo in vendita una parte crescente delle risorse pubbliche.

Chiariamo un punto: i paesi ricchi sono ricchi nel senso che i patrimoni privati non sono mai stati così grandi, ma gli stati sono poveri. E se continuano così avranno un patrimonio pubblico sempre più ridotto, e i proprietari di titoli pubblici avranno non solo l’equivalente di tutti i beni pubblici (edifici, scuole, ospedali, infrastrutture, eccetera), ma anche il diritto di prelevare una quota crescente delle imposte dei futuri contribuenti. Al contrario si potrebbe fare come è stato fatto nel dopoguerra, ridurre il debito pubblico rapidamente aumentando le imposte sui patrimoni privati più grandi, dando allo stato un certo margine di manovra. Solo a questo prezzo infatti si potrà portare avanti un’ambiziosa politica d’investimento nell’istruzione, nella sanità, nell’ambiente e nello sviluppo.

Inoltre bisogna togliere i diritti di copyright sui vaccini, condividere le entrate delle multinazionali con i paesi del sud del mondo e mettere le piattaforme digitali al servizio dell’interesse generale. Bisogna promuovere un nuovo modello economico fondato sulla condivisione del sapere e del potere a tutti i livelli. Il neoliberismo, lasciando il potere ai più ricchi e indebolendo i poteri pubblici, non ha fatto altro che rafforzare il modello cinese. È tempo di passare a qualcosa di diverso.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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