21 luglio 2017 15:18

Qualche settimana fa ho mancato al mio dovere di giornalista. Sono andata a vedere Bob Dylan al Palladium, con l’intenzione di recensirlo, ma ho scoperto con sgomento che semplicemente non potevo.

Vedete, davo per scontato che mi sarebbe piaciuto e che anche se non avessi amato ogni singolo momento musicale, come minimo sarebbe stato straordinario trovarmi nella stessa sala con una leggenda vivente.

Quello che non mi aspettavo era che avrei odiato ogni singolo momento musicale e che non sarei riuscita neppure ad arrivare alla fine del concerto. Una volta tornata a casa, sono rimasta basita a fissare per ore lo schermo del pc, finché la prolungata assenza di parole non mi ha costretto a rendermi conto che a un certo punto della mia vita avevo perso l’irriverenza del punk che mi portava ad apprezzare l’iconoclastia fine a se stessa: ero diventata rispettosa.

Il posto nella storia
Non era solo il fatto che sapevo, e accettavo mestamente, che una recensione negativa avrebbe provocato reazioni rabbiose, del tipo: “Chi si crede di essere quella cantante mingherlina, Tracey Thorn, per stroncare il nostro genio Bob Dylan?”. Era che, a qualche livello, sentivo che una parte di me sarebbe stata d’accordo con loro.

Non mi faccio illusioni sul posto che rispettivamente occupiamo nella storia della musica pop: Dylan ha un ruolo da protagonista, di chi ha lasciato un segno. È un premio Nobel, per carità. Ero andata a quel concerto per parlarne bene, e non credo che il mondo sentisse il bisogno di una mia stroncatura.

In poche parole, posso dirvi solo questo: non suona la chitarra e per tutta la durata del concerto è seduto al pianoforte o in piedi davanti al microfono. I pezzi famosi sono pochi e distanti tra loro, e quando intona una canzone che tutti conosciamo e amiamo, Tangled up in blue, il pubblico scoppia quasi in lacrime per il sollievo: eppure, lui la canta come uno che non ne conosce né le parole né la melodia, con il sound mix che riduce la sua performance vocale a una specie di sordo ronzio fatto di due sole note: na-NA-na-NA-na-NA-na-NA.

Forse non sono tagliata per fare la critica, visto che mi piace scrivere solo delle cose che mi piacciono

E questo da un uomo adorato e osannato per i suoi testi. Se ora state annuendo in segno di approvazione, chiudiamola qui. Se invece siete indignati e del parere opposto, chiudiamola qui lo stesso.

Dopo il concerto, qualcuno mi ha detto che Dylan soffre di una terribile artrite e che è per questo che non può più suonare la chitarra. E mi è tornata in mente la posizione a gambe larghe che assume, sia al pianoforte sia quando si alza in piedi per cantare; e ora mi chiedo se non abbia bisogno di una protesi all’anca e per lui provo solo sentimenti di simpatia e comprensione. Quindi forse non sono tagliata per fare la critica, visto che mi piace scrivere solo delle cose che mi piacciono.

Senza confronto
Tutto questo mi ha fatto riflettere, però: cosa cerco in un concerto? Quali sono le serate che mi sono rimaste più impresse nella memoria, e perché?

C’è stato Prince, in tutto il suo splendore, durante il tour Lovesexy, quando neppure un lungo spettacolo al Wembley era bastato a contenere tutto quello che sapeva fare, ed era stato costretto a proseguire per tutta la notte alla festa del dopo-concerto, irrefrenabile, intoccabile.

Gli Smiths, giovani e trionfanti all’Hacienda nel 1983, dove indossavamo spillette con la scritta Handsome, e Morrissey lanciava gladioli al pubblico, che venivano afferrati e branditi, e poi gettati a terra e calpestati, ridotti a una melma informe. O i concerti del ritorno di Kate Bush, all’Apollo, che mi hanno lasciato stordita e piangente, più scompigliata che se ci fossi stata io, sul palco.

Ma niente può reggere il confronto con i concerti elettrizzanti della mia adolescenza, quando la serata fuori casa contava più dei gruppi sul palco, quando quello che indossavo contava più dei pezzi che suonavano. Al concerto di Ian Dury & the Blockheads all’Hemel Hampstead Pavilion, nel 1978, l’atmosfera era più quella di una festa: c’erano palloncini e stelle filanti per aria, e io indossavo una giacca blu ricoperta di spillette, e ballavo davanti al palco con una sigaretta al mentolo in una mano e un bicchiere di plastica nell’altra, sbaciucchiando un imbianchino che si chiamava Mick.

Era proprio sesso, droga e rock’n’roll. Ovvero pomiciare, fumare e ballare. Non mi meraviglia che resti uno dei migliori concerti della mia vita: ma il merito era di quella band o del fatto che mi ritrovavo in una sala piena di ormoni e di possibilità, alla ricerca di me stessa, carica di nicotina e di elettricità? Dopo una certa età, quale concerto può sperare di suscitare le stesse emozioni? Neanche quello di Bob Dylan.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista britannica New Statesman.

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