06 agosto 2018 16:03

Ho marciato due volte nelle ultime settimane: una per protestare, l’altra per allenarmi. La protesta era contro Voi Sapete Chi, Colui Che Non Dovrà Essere Nominato, e contro la sua visita nel Regno Unito. La sera prima ho parlato delle manifestazioni in programma con le mie figlie ventenni. Erano piuttosto scettiche. “La tua è una generazione che ama le marce, vero?”, mi ha detto una di loro, con espressione comprensiva.

In un certo senso è vero, anche se a dirla tutta non ho partecipato a così tante marce. Riconoscevo però che le loro controargomentazioni avevano un senso per me. So che protestare non serve a far cambiare idea a qualcuno, ma a mandare un messaggio, anche se solo tra noi.

Bofonchiavo frasi fatte: tenere alto il morale, solidarietà, alzarsi in piedi e contarsi… Ma forse quello che avrei dovuto sottolineare più di tutto è che le proteste possono essere divertenti. Alla fine abbiamo concordato sul fatto di avere opinioni divergenti. “Non abbiamo bisogno di manifestazioni noi, abbiamo internet”, ha detto l’altra, il che mi ha fatto pensare: “Mmm, sì, e ha funzionato fin qui?”.

Ho deciso di partecipare alla marcia delle donne, partita a mezzogiorno da Portland place, invece che alla manifestazione successiva, organizzata da un insieme leggermente diverso di personaggi e gruppi di sinistra. Forse non serve sottolineare come il fatto stesso di avere due manifestazioni fa molto Fronte popolare di Giudea contro Fronte del popolo giudeo, ma questo fa parte del gioco.

La scritta sulla mia maglietta mi fa apparire ribelle, ma sotto sotto mi sento fragile

Come in occasione dell’ultima marcia delle donne, anche stavolta i cartelli fatti in casa sono l’attrazione principale, così divertenti e arrabbiati. Provo a valutare il mio umore mentre marciamo su Regent street e mi rendo conto che in generale in quel preciso istante non sono proprio arrabbiata, ma piuttosto spaventata.

Mi ritrovo a dover lottare contro la sensazione che questo è un periodo senza controllo, con brutte cose che accadono e cose ancora peggiori che si profilano all’orizzonte, e che troppe delle persone al potere hanno a cuore solo i loro interessi.

Durante la marcia però tutte queste sensazioni sono momentaneamente messe a tacere dall’euforia di ritrovarsi nella folla che suona tamburi e fischia, composta da chi-si-rifiuta-di-stare-in-silenzio. Penso: forse sono tutti più coraggiosi di me. Ne hanno l’aspetto se non altro. Ma magari anche loro pensano la stessa cosa guardandomi. La mia T-shirt con su scritto “scegli l’amore” mi fa apparire ribelle, ma sotto sotto mi sento molto fragile. Forse il punto è proprio questo.

La nostra manifestazione termina in Parliament square, e dopo aver aspettato un po’ guardandomi intorno per cercare di ritrovare un’amica persa lungo il tragitto – “Sono sotto la statua di Palmerston”, mi ha scritto in un messaggio, costringendomi a girovagare per la piazza scrutando i piedistalli nel tentativo di distinguere tra Disraeli e Peel– insieme a qualcun altro torno a Trafalgar square, appena in tempo per vedere arrivare il secondo gruppo di manifestanti. È una folla enorme e confortante, un flusso che irrompe e riempie ogni nicchia e fessura della piazza.

Finale musicale
Dal podio cominciano gli interventi e io comincio a sentirmi come se mi stessero facendo una lezione, anche se a parlare erano persone con le quali in larga misura mi trovavo d’accordo. Penso che forse le manifestazioni migliori siano quelle che finiscono con la musica. La prima alla quale sono stata, organizzata da Rock against racism e dall’Antinazi league nel 1978, è famosa per essersi conclusa con un concerto a Victoria park in cui si sono esibiti i Clash e X-Ray Spex. Ci sarei andata senza la musica? Forse no.

Due giorni dopo quest’ultima protesta stavo marciando a Hyde Park. Mi allenavo per una corsa di beneficienza alla quale parteciperò a settembre per raccogliere fondi a favore di Help refugees. Si prevedeva che la temperatura avrebbe raggiunto di nuovo i 30 gradi, perciò abbiamo cominciato alle 8.30 e nonostante ciò siamo riusciti a sudare e a disidratarci. Mi era venuta una vescica – “Sul serio, cosa non sono disposta a fare per la democrazia”, scherzavo – perciò, quando più tardi sono uscita nel caldo della sera per vedere Róisín Murphy suonare dal vivo davanti alla Somerset house, avevo messo dei cerotti.

I piedi mi facevano malissimo. Mentre ballavo indossando sandali bassi con la suola sottilissima, sotto i piedi sentivo i ciottoli, duri e impietosi. Avevo le gambe pesanti e faceva troppo caldo. Ma la musica era comunque contagiosa, e avevo in mano un bicchiere di plastica pieno di vino, e mi sono ritrovata a desiderare che tutte le marce finiscano così. “Rispondi cantando, rispondimi cantando”, cantava Róisín dal palco, e così abbiamo fatto, tutti quanti all’unisono, con le braccia al cielo, una folla unita dal piacere, stavolta.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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